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I “Mussi di ficurinia”, la genesi del clan

Di Concetto Mannisi |

Catania – Il clan dei Laudani è uno dei gruppi storici della mafia catanese. Un gruppo che affonda le proprie radici nel quartiere di San Cristoforo, dove pare che il vecchio patriarca facesse l’allevatore di capre. Ciò prima di dedicarsi a un’attività più remunerativa, nel mercato clandestino della carne, base su cui sono state poste le fondamenta per la potente holding criminale dei “Mussi di ficurinia”. I Laudani impiegano poco, infatti, per entrare in possesso di macellerie e allevamenti di bestiame della provincia e, soprattutto, dell’hinterland. E fissano il loro quartier generale a Canalicchio, là dove aprono la famosa macelleria di via Pietra dell’Ova in cui verrà ucciso in un agguato, nell’agosto del 1990, nell’ambito dell’ennesima faida, Santo Laudani, uno dei figli dello stesso Patriarca.

Ma prima di questo evento luttuoso ci sono lustri di estorsioni, usura e rapine. E pure di alleanze poi rinnegate e di omicidi. Le carte giudiziarie parlano di una grande amicizia col boss Alfio Ferlito, poi ucciso nell’estate dell’82 mentre viene trasferito da un carcere all’altro, sulla circonvallazione di Palermo, dei buoni rapporti con i «Puntina» Di Mauro (altra «amicizia» storica, ai tempi), con gli «Sciuto Tigna», con il gruppo di Pippo Ferone «Cammisedda» e con quello di Nino Puglisi, poi fuoriuscito e messosi in proprio con Orazio «’u lisciu» Nicolosi e il clan della «Savasta». Ucciso Ferlito e rotti una serie di equilibri, anche con gli stessi “santapaoliani” con cui ci sono stati momenti di grande tensione e altri di grande afflato, i Laudani entrano in contrasto con il clan Pillera-Cappello, che presto sarà appoggiato anche dai “Carrateddi” di Concetto e Ignazio Bonaccorsi.

I caduti per le strade della città non si contano ma i “Mussi di ficurinia”, sempre abituati a galleggiare fra gli uni e gli altri mantenendo anche una propria autonomia, non si lasciano spazzare. Anzi, se possibile diventano ancora più forti e, sotto la guida dell’oggi pentito Giuseppe Di Giacomo, si rendono protagonisti di fatti di sangue clamorosi: l’attentato con un’autobomba alla caserma dei carabinieri di Gravina, l’omicidio dell’agente penitenziario Luigi Bodenza e quello dell’avvocato Serafino Famà. Sono episodi che fanno accrescere il “prestigio” del gruppo i cui responsabili, in qualche caso, vengono anche chiamati a fare da ago della bilancia. Come dimostra, nell’ottobre del 2009, l’episodio dell’arresto di “Iano il piccolo”, figlio dell’ucciso Santo, catturato nel blitz dei carabinieri che portò all’arresto di Santo La Causa, boss di Cosa nostra catanese, il quale aveva a sua volta organizzato un summit nel suo covo fra Camporotondo e Belpasso per studiare le strategie di difesa ed eventuale contrattacco nei confronti dei “Carrateddi” di Iano Lo Giudice. Quest’ultimo forte di una potenza economica (derivata dagli introiti della droga) e di un esercito impressionante si era messo in testa di sbarazzarsi della presenza dei santapaoliani sulla piazza catanese.

Il giovane Sebastiano Laudani, pare in buoni rapporti con Orazio «pilu russu» Privitera (altro leader dei “Carrateddi” e uomo dall’intelligenza sopraffina), avrebbe dovuto mediare una improbabile riappacificazione. Non ne ebbe modo.Fu un grande dolore quell’arresto per Sebastiano il patriarca, che aveva sempre suggerito ai nipoti di stare lontani dai santapaoliani e dai “palermitani”, rei di avere ammazzato un uomo di grande spessore Ferlito, «uno che sapeva il fatto suo – dice al fratello di “Iano il piccolo” – e che ai santapaoliani glielo faceva tenere così». «Lontani, lontani da loro, dovete stare – dice al nipote – da loro e da quello “scunchiuruto” di Vincenzo (Santapaola, ndc). E poi, Santuzzo, mi raccomando, non ti “ubriacare”. Se ti danno una macchina rubata non te la prendere. Pensa a chi sei e alla nostra famiglia». Già, un Laudani non può finire nei guai per così poco….

I consigli del nonno. «State lontani da palermitani e da quelli del clan Santapaola»Lo storico boss del clan dei Laudani è il patriarca Sebastiano, ma il soprannome “Mussi di ficurinia” non è legato alla sua figura, bensì a quella di una vecchia zia del collaboratore di giustizia Giuseppe: «Aveva i baffi e quando ci baciava ci pungeva». Del nonno, che peraltro lo ha cresciuto, Giuseppe ha dato ai magistrati un profilo inquietante: «E’ lucidissimo, nonostante l’età fa pesi in cella. Lui ha un chiodo fisso, se esce fuori di galera scatena una guerra. Vuole ammazzare tutti. Deve restare dov’è». Un “pensiero” ricambiato dal nonno che quando scopre del pentimento del nipote lo bolla così: «La mia doloranza più forte qual è? Ca stu bastaddu.. e cunnutu… e figghiu di sdisonorata per non sbagliare a parlare, ca s’annunca addiventu pazzu, ha macchiato il nome della famiglia».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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