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Quei silenzi inquietanti sulla morte al Cara di Mineo

Di Carlo Colloca* |

Era mercoledì 21 giugno 2017 quando la Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti, congedava col voto unanime dei parlamentari la Relazione sulle vicende concernenti il Centro di Accoglienza (Ex Cara) di Mineo e scriveva: «La Commissione ritiene che il Cara di Mineo debba essere chiuso nel più breve tempo possibile» (pagina 277, Bollettino degli Atti parlamentari della Commissione). A distanza di oltre sei mesi, da Consulente di quella Commissione mi domando perché la struttura che doveva essere chiusa è ancora aperta. Talmente aperta che un cittadino malese è il principale indiziato per essersi introdotto il 2 gennaio scorso nel Cara e, in seguito ad una lite, ha assassinato la moglie ventiseienne Francis Mirale. Forse il Cara di Mineo non può essere chiuso perché ha innescato un’economia locale insperata per quel territorio e forse anche nuove clientele politiche? Il “caso Mineo” è stato centrale nei lavori della suddetta Commissione fin dalla sua istituzione. Durante l’ispezione del luglio 2016 –e successive audizioni – è emerso con chiarezza alla Commissione che il “modello Mineo” produceva ambienti invivibili e lesivi dei diritti e della dignità umana; generava nel territorio allarme sociale e problemi di sicurezza (basti pensare oggi alle modalità con cui il suddetto cittadino malese si è introdotto). Infine si prestava ad episodi di illegalità nella gestione, se non apriva il varco ad infiltrazioni mafiose come evidenziato dall’inchiesta su “Mafia Capitale” e dal rigoroso lavoro di indagine delle Procure della Repubblica di Catania e di Caltagirone. Quest’ultima ha denunciato già nel maggio 2017 il clima di terrore nel quale vivono molte delle donne ospiti del Centro sia per minacce di violenze sia per violenze subite.

Dopo la morte della signora nigeriana Francis Mirale si registra, però, un “silenzio inquietante”. Tace a livello nazionale il giornalismo radio-televisivo e quello della carta stampata. Tutti ricordiamo la tragica morte dei coniugi Solano a Palagonia nell’agosto 2015 che giustamente e legittimamente la stampa nazionale seguì per giorni, anche perché il presunto assassino era l’ivoriano Mamadou Kamara, ospite del Cara di Mineo, e le cui prove a carico ne alimenterebbero la colpevolezza. Ora la notizia della morte della signora Mirale presso il Cara di Mineo, a poche ore dall’essersi consumata, non fa più notizia. Tacciono tutte quelle voci della società civile e della politica che solitamente ci ricordano quante donne muoiono tragicamente per mano dei loro compagni. Il “silenzio” prosegue anche a livello istituzionale, e mi riferisco in particolare alle istituzioni di governo: nessuno degli attori che le rappresentano ha fatto dichiarazioni su come si possa essere consumato un simile dramma in una struttura che il 21 giugno 2017 una Commissione parlamentare di inchiesta riteneva dovesse essere chiusa. La risposta a tanto “silenzio” va forse ricercata nel fatto che fra autoctoni e migranti si è diversamente uguali anche quando si muore? Mineo, dunque, metafora dei paradossi dell’accoglienza dei migranti in Italia, ma anche ennesimo caso di una struttura che non dovrebbe essere stata aperta, ma nella quale si muore. Era già successo con la Casa dello Studente dell’Aquila e poi con l’albergo di Rigopiano; dunque si può morire, producendo un silenzio assordante, anche nel Cara di Mineo.

*Docente di Sociologia urbana all’Università di Catania e consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti

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