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«Così si muore di usura e di banche»

Di Andrea Lodato |

«No, non è finita – dice Licari, con santa pazienza e cercando di mantenere la calma e la lucidità –. Dopo anni di vessazioni, di minacce, dopo essere stato alla mercè di delinquenti, spesso insospettabili, decisi di denunciare chi aveva minacciato me e la mia famiglia, chi mi aveva rovinato. Mi dissero che quello sarebbe stato lo spartiacque tra il dramma vissuto e un futuro possibile. Un futuro che si sarebbe dovuto concretizzare a partire dal 2013, quando grazie ai fondi che arrivarono dallo Stato per chi aveva denunciato il racket, riavviai una mia attività a Catania. Doveva essere l’inizio di una nuova vita. Ma non è stato così».

Inaugurazione in pompa magna quel giorno a Catania. C’erano tutte le istituzioni, ci fu la benedizione della Chiesa e quella dello Stato. Illusione, pia e pura illusione. Perché quando si è entrati in un tunnel come quello dell’usura, le conseguenze che si pagano in questo Paese non finiscono più. Licari riparte da lì. «Sì, riaprii, ma i fondi che avevo ricevuto come vittima del racket non bastavano nemmeno a coprire in parte i buchi che erano stato provocati da quel cataclisma vissuto per vent’anni. Impegnai tutto quello che potevo, per me, per la mia famiglia, per mia figlia, che oggi ha 26 anni, e che ha sempre vissuto questa situazione di precarietà, di paura, di angoscia. Insomma ci provai. Ma, chiaramente, per riuscire nell’impresa di riavviare davvero la mia attività sarebbe servito uno sforzo collettivo, di tutti i soggetti che potevano e dovevano fare qualcosa di concreto per darmi una mano. Invece nulla, solo, di nuovo solo. E alle prese con porte e sportelli chiusi, sbarrati».

Là, dopo quella festosa inaugurazione del 19 marzo 2013, Giuseppe Licari ha scoperto di essere un appestato. Perché nelle banche non poteva mettere nemmeno piede, segnalatissimo in centrale rischi, persona insolvente. Insomma niente credito, niente prestiti, niente speranze, perché senza i soldi delle banche è molto difficile andare avanti. «Niente, ho trovato solo gente che mi ha respinto, in nome delle norme, dei regolamenti bancari, dei vincoli. Abbandonato, lasciato lì a vedere dissolversi quell’attività riaperta, quella speranza coltivata con mia moglie, per mia figlia. Per me stesso. Guardate, prima di allora avevo denunciato tanta gente, che aveva esercitato contro di me violenze e prevaricazioni. Ma tante altre avrei dovuto e dovrei denunciare, per quello che mi è stato fatto dopo, perché, alla fine, arrivava qualcuno che mi spiegava che l’unica soluzione era quella di rivolgersi a certi amici, gente che mi avrebbe concesso credito. Capisce cosa vuol dire? Un canale che portava direttamente di nuovo dagli usurai. Questo è lo Stato che mi ha spinto a denunciare, lo Stato che non riesce a comprendere che non creando canali che aiutino imprenditori taglieggiati a riavere credito dalle banche, non si fa che perpetuare il circolo vizioso, rispedendo chi vuol lavorare tra le braccia dei delinquenti. E la politica che fa? Esprime solidarietà, viene ai convegni, ma nessuna iniziativa legislativa per cambiare lo stato delle cose. Sono stanco adesso, molto stanco. Ho perduto le speranze e nella mia mente passano soltanto pensieri terribili. Mi hanno ridotto così, mi hanno rubato la vita e la speranza. A me e a tanti altri come me, finiti in questo gorgo da cui nessuno ti aiuta davvero a tirarti fuori».

I cattivi pensieri girano per la mente di Giuseppe Licari, inevitabilmente. Ma l’uomo è tenace, come detto, la moglie lo segue e lo rasserena, anche se il futuro è incerto. Ma c’è, solo bisogna trovare l’uscita di questo tunnel. E per dare a Giuseppe Licari ancora forza, non resta che farne, oltre retorica, ciò che oggi è, cioè un simbolo di onestà e di resistenza.

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