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Ecco perché la commissione d’inchiesta ha chiesto la chiusura del Cara di Mineo

Di Mario Barresi |

Catania. «Non sapevamo dove metterli». Sottinteso: i migranti, se non fossero stati ospitati nel centro d’accoglienza più grande d’Europa.È l’ammissione di Franco Gabrielli, in un faccia a faccia con Luca Odevaine. L’attuale capo della polizia, allora commissario delegato del governo per l’emergenza migranti, parla del Cara di Mineo con l’insospettabile «responsabile della gestione», che soltanto dopo si sarebbe scoperto essere l’anima nera di Mafia Capitale. «Prenditi queste carte», dice Odevaine. «Queste sono le carte della Croce Rossa. Ritengo il prezzo sia abnorme. Qui ci sono due soluzioni: o lo chiudiamo o facciamo la gara», ipotizza il prefetto. La risposta, alla luce di ciò che sarebbe successo dopo, è scontata. «Facciamo la gara», consiglia il “facilitatore”. «La chiusura – ricorda Gabrielli – era più che altro una minaccia. Non sapevamo dove metterli».

ECCO LA RELAZIONE CHOC

In fondo è la verità. Cruda, amara. Se ieri, com’era prevedibile, la commissione parlamentare d’inchiesta sull’accoglienza migranti ha chiesto che il Cara di Mineo deve «essere chiuso nel più breve tempo possibile» c’è una chiave di lettura oggettiva – al netto di inchieste giudiziarie e processi – legata a un dato politico: il centro è «un caso di scuola delle contraddizioni e dei limiti insiti in un approccio evidentemente fallimentare al fenomeno migratorio e alla gestione dell’accoglienza».

Contesti «spesso invivibili e lesivi della dignità umana», generatori di «allarme sociale e problemi di sicurezza», ma anche «opacità di gestione ed episodi di illegalità» se non addirittura «vere e proprie infiltrazioni mafiose». Sono durissime le 76 pagine di relazione della commissione, votate all’unanimità dopo un compromesso fra posizioni più pesanti (soprattutto sulle responsabilità politiche) e una certa prudenza da parte dei membri dei partiti di maggioranza.

C’è, ovviamente, un approfondimento sulle inchieste giudiziarie, a partire da quella di Catania su turbativa d’asta e corruzione elettorale, che vede a processo, fra gli altri, il sottosegretario Giuseppe Castiglione. La relazione descrive lo stato dell’arte delle indagini sul «preconfezionamento» di cui ha parlato in audizione il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che ha rivelato anche nuovi filoni «sul tema delle forniture e della possibile presenza in tale ambito di soggetti riconducibili alla criminalità organizzata locale». Quella del Cara di Mineo, si legge nella relazione, «non può essere derubricata ad una semplice vicenda corruttiva locale». Piuttosto, «una ghiotta occasione di business per alcuni», con un «uso discutibile delle risorse» oltre che «episodi di arbitrio e corruzione». Su Castiglione la relazione si limita a descrivere, con le parole del procuratore Zuccaro e con alcuni atti dell’inchiesta, il ruolo nella gestione del Cara. Nulla di inedito. Tranne il «riscontro documentale» sulle dichiarazioni di Odevaine «in ordine al ruolo svolto da Castiglione e Ragusa (Paolo, ex presidente di SolCalatino, coinvolto in più indagini, ndr) nell’elezione di Anna Aloisi a sindaco di Mineo e al rapporto di sostanziale subordinazione di quest’ultima a Ragusa». Dai tabulati telefonici emergono 7.354 contatti (di cui 6.705 sms) fra i due, fra gennaio 2013 e novembre 2014. Da un raccoglitore con la scritta “Ncd – Nuovo centrodestra”, sequestrato dai carabinieri nella sede di Sol.Calatino, nomi e quote associative di 15 circoli del partito di Alfano. «Buona parte delle persone iscritte nei circoli in questione – annota la commissione parlamentare – era in rapporti lavorativi al Cara di Mineo o con società consorziate» legate a Ragusa.

Un altro tema è la «pista fredda» citata da Zuccaro in audizione. Ovvero le indagini («non siamo riusciti a rinvenire elementi che supportassero questo nostro sospetto…», dice il procuratore) sulla «compartecipazione all’accordo illecito» di «componenti della locale Prefettura» e su «una qualche copertura offerta da più alte sfere ministeriali».Nessun rilievo penale sul versante investigativo, carte alla mano. Ma la commissione parlamentare rileva alcune ombre nella procedura. Come la «mossa tardiva» del direttore del Dipartimento libertà civili e immigrazioni, il prefetto Rosetta Scotto Lavina, nel chiedere (il 12 giugno 2012, a pochi giorni dalla scadenza del termine) un parere all’Avvocatura dello Stato sul «passaggio dalla fase emergenziale a quella transitoria». Per la commissione d’inchiesta «questo ritardo rende inevitabile il ricorso ad una serie di proroghe per la gestione del centro». L’Avvocatura, «andando ultra petita», auspica «per esigenza di rapidità», di rinnovare il rapporto o di stipulare una nuova convenzione con il Consorzio dei Comuni. Il prefetto Scotto Lavina, però, racconta in audizione che era «di parere contrario» rispetto alla scelta che la stazione appaltante fosse il consorzio, proponendo invece (come avviene nel resto d’Italia) che il compito fosse della Prefettura. Ma questa volontà, si legge nella relazione, «non sembra incontrare i favori» della Prefettura etnea che «assume un atteggiamento quasi ostruzionistico». Comincia un carteggio fra Viminale e Prefettura, che «si fa portavoce dei sindaci di conservare la gestione del Cara». E non solo: «A tale volontà sembra aderire in modo pieno» l’allora prefetto Francesca Cannizzo, che «persevera nell’azione dilatoria attraverso note di richiesta di chiarimenti che appaiono strumentali a non indire la gara di appalto».

La commissione parlamentare ha chiesto all’ex prefetto spiegazioni sulla «forte sollecitazione» della quale la stessa parlò in una nota all’Avvocatura. Rilevando «l’incoerenza delle risposte». Cannizzo, secondo la commissione, incorre in altre «imprecisioni» e «manchevolezze». A partire dal fatto di non aver “spacchettato” il bando in almeno due parti: reperimento dell’immobile e fornitura di servizi. Un «tentativo, ardito, di trasformare il Consorzio dei Comuni in “impresa”», che pure era stato bocciato dall’Avvocatura. Ma «perseverando nell’atteggiamento dilatorio», la Prefettura continua a chiedere chiarimenti. Il 5 agosto 2013, Cannizzo (che in seguito verrà coinvolta nel caso Saguto) diventa prefetto di Palermo; a Catania arriva Maria Guia Federico. E cambia qualcosa: «L’iniziativa della Prefettura sembra, finalmente, riscontrare le sollecitazioni dipartimentali». Ma succede un’altra cosa strana. «Inopinatamente a mutare atteggiamento, poche settimane dopo» è il Dipartimento immigrazione del ministero. Che invita la Prefettura a «valutare l’opportunità di gestire il Cara attraverso una convenzione con il Consorzio».La commissione ritiene «legittimo chiedersi: perché il Dipartimento cambia indirizzo?». E trova due risposte. Una «di carattere ufficiale» è la nota dei sindaci di Mineo (Aloisi, tutt’ora in carica) e di Vizzini (Marco Sinatra, non rieletto), rispettivamente presidente del Consorzio e presidente dell’assemblea dei soci, i quali scrivono al prefetto che «il mantenere come stazione appaltante il consorzio piuttosto che la prefettura incide sulla economicità dell’appalto». L’altra ipotesi della commissione parlamentare è «il possibile ruolo occulto svolto da Odevaine».

Ma siamo certi che non ci sia dell’altro?

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