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I prodotti venduti in Sicilia “certificati” per renderli riconoscibili sugli scaffalii

Di Giuseppe Bianca |

PALERMO – Aggiungere ai prodotti venduti in Sicilia un’ulteriore etichetta che restituisca il dettaglio dell’intera filiera di produzione. La Regione prova a mantenere alta l’asticella sulla tutela dei prodotti a beneficio dei consumatori siciliani. Obiettivo non è tanto la singola tracciabilità dei prodotti, che è già una competenza assolta dall’assessorato all’Agricoltura, quanto rendere il prodotto «riconoscibile allo scaffale», come traducono in estrema sintesi dallo staff dell’assessore regionale Turano.

Una regola che dovrà valere principalmente, e a beneficio, dei prodotti siciliani. La battaglia della riconoscibilità si intreccia, senza mezzi termini, con quella della tutela del consumatore. La Regione, del resto, non può intervenire sull’etichettatura per esplicito divieto della legislazione comunitaria. In occasione dell’ultima legge di stabilità regionale, approvata ad aprile, il governo aveva inserito alcuni emendamenti che avevano come obiettivo quello di rafforzare la tracciabilità. È toccato poi agli uffici dell’Ars rilevare il potenziale dubbio che queste norme potessero contenere profili di incostituzionalità. Ma l’idea dell’assessore alle Attività produttive Mimmo Turano, dovrebbe essere riproposta quanto prima.

A complicare le cose arriva però la sovrapposizione delle norme di settore, italiane ed europee. Nel 2017 i ministeri dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico avevano stabilito di rendere esplicito ogni passaggio. A partire dal 2018 quindi, i produttori degli alimenti base più consumati sono obbligati a scrivere sull’etichetta se la materia prima è stata prodotta in Italia, oppure importata dal mercato interno europeo, o da quello extracomunitario. E quindi, per esempio, dove è cresciuto il pomodoro delle salse, da dove arriva il latte o dove è stato coltivato il grano con cui è stata fatta la pasta. Una decisione che, nel resto del Paese ha scatenato “la guerra delle etichette”, con i produttori non sempre in prima fila a difendere questa scelta.In particolare i produttori di pasta, un’industria che vale 4,7 miliardi di euro.

In Sicilia, quasi un primato, il consumo di pasta annuale pro capite è di 40 kg, quasi il doppio del resto d’Italia se si pensa che in Trentino Alto Adige il consumo di pasta pro capite è di circa 20 chili. C’è poi, proprio nell’Isola, la “querelle” sul fatto che si possa fare o meno una buona pasta con “grani di forza”, cioè a contenuto proteico elevato. A giudicare dal fatto che in Sicilia viene prodotta pasta di ottima qualità con una percentuale proteica del 12%, il problema sembrerebbe non sussistere. Intanto, a complicare la giungla del quadro normativo, il 28 maggio, a Bruxelles, il presidente della Commissione Ue Juncker ha firmato il nuovo regolamento europeo, che azzera il decreto nazionale. Dal 1° aprile 2020 sarà obbligatorio indicare da dove viene la materia prima solo quando «il Paese d’origine è indicato attraverso illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche».

Per fare un esempio, quando sulla scatola di pasta c’è scritto «100% italiana», il produttore sarà obbligato a dichiarare se la semola è tutta italiana o una parte è importata da altri paesi. Un groviglio di regole che rischia di disorientare il consumatore, destinatario ultimo del messaggio, ma anche della scelta del prodotto. Proprio per effetto di questa lunga Via Crucis, l’assessorato regionale alle Attività produttive sta predisponendo una serie di misure specifiche, chiare e immediate. Qualche settimana ancora dovrà passare, fanno sapere, ma sul fatto che la strada sia già tracciata in tal senso non ci dovrebbero essere molti dubbi. Anche perché, fanno notare, le grandi catene di distribuzione e i ‘brand’ pesanti amano fare le guerre, ma dimenticano poi di comunicare quando hanno fatto la pace. Anche per questo Sicilia non intende correre rischi in materia.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA