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Trattativa Stato Mafia, depositate le motivazioni

Di Fabio Russello |

Sono state depositate poco fa presso la cancelleria della corte d’assise di Palermo le motivazioni della sentenza del processo sulla sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia emessa il 20 aprile scorso. Si tratta di oltre 5.000 pagine di provvedimento. Un tempo record per un processo così lungo. Condannati lo scorso aprile tra gli altri l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, gli ex vertici del Ros i generali Mario Mori, Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Assolto invece Nicola Mancino, accusato solo di falsa testimonianza.

La sentenza era stata emessa il 20 aprile dalla Corte d’Assise di Palermo con la condanna di tutti gli imputati chiave, tranne l’ex ministro Nicola Mancino. L’impianto dei pm è stato confermato dal verdetto, un verdetto pensato nei particolari, fatto di importanti distinzioni temporali e di ruoli che fanno pensare ad una riflessione condivisa su centinaia di esami testimoniali e decine di migliaia di pagine di atti. La trattativa, termine semplicistico che traduce una contestazione ben più complessa, ci fu. E a portarla avanti furono, fino al 1993, i vertici dei carabinieri del Ros, e, successivamente Marcello Dell’Utri. Giuridicamente il reato di trattativa non esiste. Agli imputati si contestava la minaccia a Corpo politico dello Stato aggravata. In sintesi Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ufficiali dei carabinieri, si fecero portatori presso le istituzioni del messaggio dei clan, un messaggio intimidatorio fatto di stragi e morti e volto a indurre lo Stato a più miti consigli nella politica di contrasto a Cosa nostra. Perciò concorrono nell’accusa con i capimafia. Perché «trattando» e dialogando con i mafiosi, per il tramite del sindaco Vito Ciancimino, e «rappresentando» le loro istanze al governo, di fatto rafforzarono e aiutarono Cosa nostra. Dal ’93 il ruolo di “cinghia di trasmissione” tra clan e pezzi di Stato fu ricoperto da Marcello Dell’Utri. Allora il premier era Silvio Berlusconi e a essere condizionato dalle minacce mafiose fu il suo governo.

La ricostruzione dei giudici è questa e le pene sono esemplari: 12 anni a Mori, Subranni, Dell’Utri e al boss Antonino Cinà, medico di Riina e uomo del papello, l’elenco con le richieste del boss allo Stato per fare cessare le bombe. Ventotto anni al capomafia Leoluca Bagarella, cognato del padrino corleonese uscito dal processo con una dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo. Otto anni a De Donno, l’ufficiale che con Mori incontrava Ciancimino a Roma. Sorte diversa per l’altro imputato eccellente: Nicola Mancino, che rispondeva di falsa testimonianza. Assolto con formula piena: non mentì ai giudici negando di avere saputo da Claudio Martelli degli incontri tra il Ros e Ciancimino fin dal ’92. «Sono contento, è la fine di una grande sofferenza», ha commentato l’ex ministro dc. E sotto i «colpi» del lungo verdetto della corte «cade anche Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco, imputato di calunnia all’ex capo della polizia De Gennaro e concorso in associazione mafiosa. Otto anni per il primo reato, assoluzione per l’altro, segno che, per la corte, il figlio di don Vito più che postino e intermediario del padre non era. Prescritte le accuse per il pentito Giovanni Brusca, quello che definì Mancino «terminale della trattativa».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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