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L’intervista all’Imam di Catania «Le moschee siano luoghi trasparenti e gli imam istruiti»

Di Giorgio Romeo |

Come si evolve il rapporto tra le comunità islamiche e la società italiana? Che ruolo hanno in questo cambiamento le nuove generazioni, sempre più occidentalizzate? E in che modo si presenta lo scenario siciliano? Il tema dell’integrazione e dei rapporti con le collettività musulmane viene dibattuto quotidianamente e nei contesti più disparati: dai talk show televisivi ai salotti della politica, passando per ambienti disimpegnati dei bar di città e provincia. In un clima dominato dal terrore suscitato dagli attentati compiuti da Daesh nel mondo occidentale, tuttavia, fare chiarezza – ancorché necessario – appare quantomeno ostico. Tra strumentalizzazioni politiche, incomprensioni dettate da ragioni culturali e linguistiche ed estremismi di varia natura (da una parte e dall’altra), il rischio diventa quello di prendere una posizione senza avere le idee chiare. In questo senso, i patti di condivisione firmati dai Comuni di Torino e Firenze con le comunità islamiche rappresentano un ulteriore tentativo d’integrazione, ma quali sono – dal punto di vista della comunità islamica – i pregiudizi da abbattere? E quali i punti su cui ancora discutere? Ne abbiamo parlato con Kheit Abdelhafid, algerino, classe 1968, presidente della “Comunità Islamica di Sicilia”, membro del direttivo dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia e imam della Moschea della Misericordia di Catania, la più grande della Sicilia.

Kheit AbdelhafidDa quante persone è formata la comunità siciliana? E quante di queste frequentano le moschee?«La Sicilia è una terra di passaggio per i migranti e non esistono dati ufficiali, tuttavia stimiamo circa 100.000 musulmani nell’Isola, concentrati per lo più nel trapanese e nel ragusano. Nel comune di Santa Croce Camerina, ad esempio, essi rappresentano un quarto degli abitanti. La moschea più grande dell’isola è quella di Catania, serve circa 20.000 persone e durante i periodi festivi accoglie circa mille fedeli per il sermone del venerdì».

Che provenienza hanno i fedeli?«Quando si parla della popolazione musulmana s’immagina che essa sia per la maggior parte araba ma non è sempre così. A Catania, per esempio, questa rappresenta solo il 15% della comunità. Non si pensa che gran parte dei senegalesi e dei bengalesi sono islamici. Alcuni fedeli, poi, provengono da paesi nordafricani, altri dalla Bosnia e da altre aree dell’ex Jugoslavia».

In Italia esistono circa 700 luoghi di culto islamici, ma molti di essi hanno sedi improprie, le cosiddette “moschee garage”. Cosa ne pensa?«Le vere moschee in Italia sono meno di una decina: Milano, Roma, Ravenna, Siena, Catania. Quelle di cui si parla sono sale preghiera che, ancorché guidate da un imam, spesso non sono a norma e a volte non superano i 20mq. In alcune città, ad esempio Palermo, sono presenti diverse sale preghiera perché la moschea è troppo piccola. L’immigrazione islamica in Italia è un fatto piuttosto recente e il problema dei luoghi di culto non sarà di soluzione immediata. Prima degli attentati alle torri gemelle, molte sale preghiera sono state allestite senza prendere in considerazione l’idoneità del posto. Oggi stiamo cercando di metterle in regola, per una questione di sicurezza ma anche di trasparenza: affinché nessuno possa speculare su ciò che accade al loro interno. La moschea di Catania ha le porte di vetro proprio per questo motivo».

Cosa pensa dei patti d’integrazione firmati a Torino e Firenze? Sarebbe necessario fare qualcosa del genere anche in Sicilia?«In molte città siciliane gli accordi tra le moschee e i comuni esistono da molto tempo. La moschea di Catania ha sempre avuto le porte aperte: il sermone del venerdì si svolge in doppia lingua e all’interno del centro culturale si tengono corsi di arabo e italiano. Recentemente abbiamo avviato anche un nuovo progetto volto all’insegnamento di quest’ultimo alle donne».

Tra la comunità islamica e lo stato italiano non esiste un’intesa che comporti un riconoscimento giuridico. Che ricadute ha questo sulla comunità?«È la nostra battaglia fin dal 1990. La costituzione italiana prevede la libertà di culto e ogni confessione ha la facoltà di organizzarsi per celebrare le preghiere ma il mancato riconoscimento giuridico impedisce, ad esempio, di accedere all’otto per mille. Oggi la comunità si autotassa e le spese del centro islamico e della moschea sono sostenute dalle offerte dei fedeli».

Il suo ruolo è quello di guida spirituale. Come si diventa imam?«Nei paesi islamici, come l’Algeria, è necessario studiare all’università teologia islamica. Sarà poi lo stato, che controlla tutte le moschee, a certificare questa formazione. In Italia, semplicemente, ogni comunità propone la persona più indicata a svolgere questo ruolo. Tuttavia l’Associazione Italiana per l’insegnamento del Corano, di cui sono membro fondatore, sta cercando d’istituire una scuola che formi al meglio queste figure».

Come vi ponete nei confronti di coloro che vogliono convertirsi all’Islam? Qual è il percorso da seguire per diventare musulmani consapevoli?«Islam significa sottomettersi alla volontà di Dio e, personalmente, ritengo che tutte le religioni, tramite i loro profeti, abbiano portato questo messaggio. Per questo preferisco parlare di “ritorno all’Islam” piuttosto che di “conversione”. La nostra comunità è aperta a tutti e, poiché nell’Islam non c’è una gerarchia, non è necessario fare un percorso dinanzi a un imam. Basterà fare la testimonianza, è una questione di fede».

Parliamo di famiglia: cosa pensa del ddl Cirinnà sulle unioni civili?«Io di politica capisco poco, ma per noi la famiglia è formata da uomo, donna e figli. Si è parlato tanto di voto di coscienza, ma io qui vedo solo un progetto che rovina la coesione della società. Non credo che la storia perdonerà chi si è permesso di far passare una legge come questa e penso sia necessaria una posizione decisa al fine di garantire un futuro migliore ai nostri figli».

A proposito delle nuove generazioni. Se una ragazza musulmana oggi venisse a chiederle un consiglio dicendole di essersi innamorata di un ragazzo catanese non musulmano, che cosa le direbbe?«Parlo da adulto e da padre, ma sono stato giovane anch’io e capisco bene cosa significhino i sentimenti per un adolescente. Riconosco che i giovani di oggi non sono più immigrati come lo erano i loro genitori. La loro cultura è occidentale e, sebbene siano cresciuti con insegnamenti islamici, tante barriere sociali sono state superate. Ciononostante abbiamo dati non incoraggianti sui matrimoni misti, rispetto ai quali sono contrario. Le direi di pensare al fatto che il matrimonio non dura un solo giorno».

E se a chiederle lo stesso consiglio anziché una donna fosse un uomo, questo cambierebbe qualcosa?«No perché le obiezioni a un’unione possono scaturire sia dalla famiglia della ragazza sia da quella del ragazzo».L’Islam in Sicilia. Centomila in Sicilia, più di un milione e mezzo in Italia: questi i dati della presenza musulmana. Ma ancora manca l’intesa con lo Stato italianoCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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