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Willie Peyote in Sicilia:«Faccio satira con la musica, il rap rende tutto più digeribile»

Di Gianluca Santisi |

“Sindrome di Tôret”, il suo quarto disco uscito il mese scorso, è entrato all’ottavo posto della classifica dei più venduti in Italia e le prime date del tour hanno registrato il tutto esaurito. Il rapper torinese (al secolo Guglielmo Bruno) arriva adesso in Sicilia, accompagnato da una band di cinque elementi, per tre date: il 9 novembre ai Candelai di Palermo, il 10 al Retronouveau di Messina e l’11 al Ma di Catania. «Sono stato in concerto a Catania – racconta – quando ancora non era uscita “Educazione Sabauda” (il terzo disco del 2015, nda). Sono molto contento di tornare anche perché amo profondamente la Sicilia e potrò fare anche il turista, mangiando tantissimo e godendo della compagnia di tante persone che non vedo da tempo».

Come nasce il tuo nome d’arte?

«È molto semplice. Mi chiamo Guglielmo, in inglese William. Il primo Willie che mi veniva in mente era Willy il Coyote, io c’ho solo messo la droga dentro…».

Anche il titolo del nuovo disco è gioco di parole…

«Partendo dalla considerazione che il concept del disco è la libertà di espressione mi è venuta in mente, come metafora, la sindrome di Tourette che si manifesta nell’incapacità di trattenere alcune espressioni verbali. Un po’ come capita a noi quando non riusciamo a trattenere le minc… Il resto è un gioco di parole in omaggio alla mia città: le “torèt” sono le fontanelle simbolo di Torino».

Hai scelto le armi dell’ironia e della provocazione per sviluppare il tuo pensiero critico.

«Faccio satira. La provocazione e l’ironia un po’ cinica, assieme a un certo tipo di approccio, sono usate per rendere più “digeribili” gli argomenti che tratto».

Uno dei tuoi brani più discussi si intitola “Io non sono razzista ma…”. Viviamo in una società discriminatoria?

«Il razzismo è espressione dell’umanità. La paura del diverso è più diffusa di quello che sembra e si acuisce nel momento in cui crescono le difficoltà economiche. Credo che se si lasciasse libero campo all’integrazione, senza intromissioni, due persone che, per esempio, vivono sullo stesso pianerottolo alla fine si renderebbero conto di quanti punti in comune hanno invece di misurarsi sulle diversità».

Un altro tema trattato è quello dell’analfabetismo funzionale. I social hanno acuito i nostri limiti?

«Hanno dimostrato che anche l’attenzione va educata. Oggi nessuno fa attenzione a quello che legge e nessuno gli ha insegnato come farlo. Io dico che l’analfabetismo funzionale serve a chi comanda. Un popolo ignorante è più facile da governare. Sui social tutti possono dire la loro. E noi veniamo soverchiati da tantissime informazioni, senza riuscire a selezionarle».

In “Avanvera” canti: “e sei disoccupato se troppo qualificato ma volendo fai il ministro senza laurea”…

«Beh, conosco un sacco di ragazzi a cui è stato risposto che erano troppo qualificati per ottenere un determinato lavoro. Questo è un paradosso. Al tempo stesso, ci troviamo in un Paese in cui per fare il ministro puoi non avere la laurea. In questo momento c’è una disaffezione totale verso la politica e si creano movimenti politici che in realtà non danno risposte».

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