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Crocetta contro tutti: «Hanno paura di me io sempre il più forte»

Di Mario Barresi |

Ma gli schizza il sangue al cervello, quando legge gli scenari e i retroscena, con i nomi dei suoi rivali. Veri o verosimili. «Sono tutti candidati, dal giorno dopo che vinsi io nel 2012», sbotta. E allora l’aplomb artefatto lascia spazio al Rosario in versione primordiale: quella – strictu sensu – di animale politico. Che, oltre a lasciarsi andare ad analisi senza filtro, torna a mordere i suoi rivali. A partire da Davide Faraone, già in campo da aspirante governatore. «Fra me e lui non c’è partita, vinco io facile facile. I sondaggi lo indicano come il candidato più debole del Pd e questo a Roma lo sanno bene. Non lo conoscono, Faraone, in Sicilia, mentre basta stare con me, quando sono in mezzo alla gente, per capire quanto sia apprezzato dai siciliani». Gli stessi sondaggi nei quali – questo Crocetta lo sa, e ne soffre molto – chi li commissiona non lo inserisce fra i candidati. Come se fosse già fuori gioco. «Ve lo siete chiesti perché? Perché hanno paura di scoprire la verità: sono io il candidato più forte, conosciuto e apprezzato». Ma ci sono anche le primarie, per misurarsi. Perché non farle? «Si possono anche truccare, com’è successo altrove. Le elezioni vere, che io ho già vinto, invece no».

Faraone, dice il governatore, in Sicilia «non lo votano». Ma ha sempre il “bollino” di renziano della prima ora, oltre che una prossimità, nel governo e nel Pd, a chi prende le decisioni. Compresa quella sulla Sicilia. «Le cose non stanno proprio come le raccontate», si limita a dire Crocetta. Che, a registratore acceso, non ripete ciò che invece va dicendo ai suoi. E cioè che «Faraone candidato non lo vogliono manco a Roma, ed è per questo che lui impazzisce». Poi, riprendendo il colloquio col cronista, confessa un dubbio antropologico-esistenziale: «Ma perché Faraone da un po’ tempo a questa parte è così silenzioso?». Si fa la domanda. E, marzullianamente, si dà la risposta: «Questo silenzio non mi colpisce, né mi stupisce. È come il silenzio di Grillo su Roma, per essere chiari. E sicuramente non è un silenzio che gli ho chiesto io, visto quanto gliene fotte a lui di me…». E allora cosa c’è dietro e dentro questo vuoto di parole? «È un silenzio che qualcuno gli avrà suggerito, perché non è possibile che Faraone, che faceva tre esternazioni al giorno su di me, da tre mesi non dica una parola…».

E poi gli altri rivali. Chi ha fatto un passo di lato (come Enzo Bianco) e chi viene indicato (come Leoluca Orlando) potenziale “salvatore” in caso di disfatta dem al referendum. Premesso che «il fatto di puntare su questo o su quell’altro in base al risultato del referendum è un assioma ridicolo», il governatore avvinghia i due sindaci al medesimo destino: «Sia Bianco, sia Orlando hanno zero fiducia nel loro territorio, giusto per capirci. E, se non li votano manco nelle loro città, figurarsi se Bianco potrebbe prendere voti a Palermo oppure Orlando a Catania…». Enzo e Leoluca, «perdenti in partenza» per Crocetta. Al sindaco etneo «il secondo abbandono della città non glielo perdonerebbe manco l’ultimo dei catanesi, il fatto che utilizzi la sindacatura per fare altre cose non glielo perdonerebbe nessuno». Ancor più ruvido il giudizio su Orlando: «Io vado in giro per Palermo e parlo con i palermitani. Quello che non mi dicono sul sindaco…». A partire dalla «munnizza, sulla quale lui faceva battaglie contro di me, ma io l’ho ridotto al silenzio, denunciando la mafia su Bellolampo». E Crocetta smonta anche l’ipotesi di ticket fra Orlando (a Palazzo d’Orléans) e Peppino Lupo (candidato sindaco a Palermo), perché quest’ultimo «non avrebbe la minima possibilità di vincere» e il centrosinistra arriverebbe al «capolavoro di perdere sia la Regione sia Palermo». Anche perché, riflette il governatore, «quelli delle città e della Regionali sono due dati completamente indipendenti, come dimostra il voto campano, dove il Pd stravince con De Luca e straperde a Napoli». Ergo: è una «grandissima c… dire che il risultato di Palermo sarà fondamentale per il destino delle Regionali».

Crocetta riveste i panni da presidente. Fiero dei giudizi di Renzi («ha detto che la Sicilia era una macchina che andava verso il burrone e noi l’abbiamo ripresa») e del potente sottosegretario Claudio De Vincenti («ha ricordato che la Sicilia prima era considerata una Regione “canaglia”, mentre oggi è virtuosa»).

Si sente forte, più forte di prima. Perché «è molto difficile, da parte di tutti questi soggetti contro di me, dire che non c’è un lavoro oggettivamente riconosciuto come positivo dal governo nazionale». Adesso, sostiene, bisogna lavorare. Sui 1.100 cantieri, sul Patto per la Sicilia, sulla spesa dei fondi europei. E, dalla trincea del Pd, sul referendum. «Io non ho fatto comitati, perché ho un ruolo istituzionale. Magari presenzierò, com’è giusto che sia, ad alcuni eventi», mette la mani avanti Crocetta. Che però snocciola i dati sul «lavoro svolto dalla mia componente che ha raccolto 10mila firme in una settimana, che si aggiungono a quelle raccolte dai nostri dentro il Pd». Crocetta di governo e di partito, perché «adesso bisogna lavorare per far vincere il sì». Prima di cominciare l’altra sfida, quella della vita. Le Regionali. Per le quali nel Pd «si sono fatti i c… loro, ignorando che io non solo sono candidato, ma sono il candidato più forte, oggi. E lo sarò ancor di più nel 2017. Non ce n’è per nessuno».

Può bastare così. Per adesso.

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