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«Quelle macchine capaci di pensare e decidere da sole»

Di Maria Ausilia Boemi |

«L’intelligenza artificiale – spiega – è la frontiera dell’informatica. Essenzialmente consiste nel realizzare sistemi artificiali in grado di compiere attività intelligenti quali percezione automatica, ragionamento, apprendimento, decisione anche in situazioni complesse. Utilizza sistemi basati sulla logica per effettuare attività di ragionamento, e sistemi ispirati al cervello. Una delle nuove tecnologie riguarda infatti la realizzazione di sistemi “neurali”, che si ispirano all’organizzazione della corteccia cerebrale e che sono addestrati per compiere determinati compiti come ad esempio di visione o di riconoscimento». Tantissime le applicazioni di queste tecnologie, in particolare nei sistemi di monitoraggio: «Si pensi ai sistemi di sorveglianza basata su telecamere o altri sensori. I termini che oggi vengono usati sono cybersecurity o intelligenza dell’ambiente, che significa che l’ambiente in qualche modo è caratterizzato dall’avere una sorta di sistema nervoso artificiale in cui dai sensori vengono rilevate informazioni di vario tipo che sono poi utilizzate per riconoscere situazioni ed eventualmente prendere decisioni di intervento sull’ambiente stesso».

Si va dall’applicazione più “banale” della casa domotica al controllo di grandi impianti a livello cittadino: «Ad esempio il controllo dell’inquinamento e del traffico o un sistema di viabilità integrato in cui sono regolati i semafori. Un altro aspetto dell’intelligenza artificiale sono i veicoli a guida automatica: la capacità di un’auto di seguire la strada, evitare gli altri veicoli, connettersi con una rete in modo tale da trovare i percorsi migliori».

Tornando alla cybersicurezza, tema purtroppo oggi di grande attualità con la crisi Usa-Russia, «l’intelligenza artificiale serve anche a capire cosa succede nella rete, a riconoscere situazioni. Ciò avviene addestrando i sistemi: una delle caratteristiche dell’intelligenza artificiale è infatti quella che si chiama “machine learning”, l’apprendimento delle macchine. Si fa apprendere un comportamento alle macchine mostrando loro degli esempi: così come si fa con gli esseri umani, un addestratore mostra alle macchine degli esempi su come comportarsi e la macchina impara a seguirli e a generalizzare, sapere riconoscere situazioni simili e a dare risposte opportune nei casi che si presentano».

Un’applicazione di ciò sono i robot: «Noi associamo alla parola robot un essere fisico artificiale, un androide: alcuni di questi già esistono in ambienti controllati in ambito industriale. Non mi riferisco alla robotica industriale, che ormai è un’applicazione classica, ma ad esempio al sistema che utilizza Amazon per evadere gli ordini: Amazon ha un magazzino in cui i robot si muovono, andando a prendere i prodotti dagli scaffali e preparando le confezioni. In questo magazzino non ci sono persone ma solo robot».

E qui, senza scomodare migliaia di pagine di fantascienza con le macchine che prendono il sopravvento sull’uomo, ci si imbatte in una delle controindicazioni dell’intelligenza artificiale (in realtà un’eredità della rivoluzione industriale): le macchine che sostituiscono l’uomo nel lavoro. E non soltanto nelle incombenze manuali, di “basso” profilo, ma anche e soprattutto, oggi, in quelle intellettuali: «Questa è una tematica molto attuale. Certo che c’è questo pericolo. Si tratta di processi che dal punto di vista sociale vanno governati perché possono portare, e stanno già portando, a riduzioni di posti di lavoro, anche intellettuali. Tanto per dire: anche nel mondo giornalistico ci sono sistemi di intelligenza artificiale che, con le notizie di agenzia, sono in grado di preparare un pezzo giornalistico. Oppure, nell’ambito legale esistono sistemi in grado di inquadrare un caso, andare a cercare le leggi e le sentenze emesse a riguardo e, quindi, preparare una documentazione a livello legale, con conseguenze sull’occupazione degli avvocati». E non parliamo di sistemi avveniristici: «Un’altra di queste applicazioni negli Usa è legata a un progetto Ibm denominato Watson: si tratta di un supercalcolatore in grado di dialogare nel linguaggio naturale e dare risposte, andando a cercare informazioni su internet: in altre parole, questo sistema cerca tutta la documentazione esistente su un determinato caso, fornendo così la risposta più efficace. L’applicazione Watson Health, ad esempio, nell’ambito dell’oncologia è in grado di fare diagnosi che gli esseri umani non sono in grado di fare, perché va a cercare negli articoli scientifici casi anche particolari. Sono sistemi in grado di trovare tutto ciò che c’è in rete e inquadrare e rispondere a quesiti o preparare documenti che riguardano casi particolari».

Come dire, l’uomo rischia di diventare marginale in questo processo “governato” dai sistemi artificiali: «È chiaro che, se non governato, questo processo rischia di creare problemi. E la cosa strana è che dal punto di vista della politica non ci si accorga di questi sviluppi: questi sistemi sono di grande aiuto per le persone, ma si tratta di tecnologie molto potenti che, come nel caso dell’energia, o si governano, o sono guai».

Anche perché il salto di qualità degli ultimi anni è la capacità di tutti questi sistemi di imparare, col rischio di soppiantare l’uomo. E non soltanto dal punto di vista lavorativo: «Un caso c’è già: sono i sistemi che fanno le transazioni in Borsa, operazioni da effettuarsi a velocità tali che gli esseri umani non sono più in grado di seguirle. Il giorno dopo la Brexit, c’è stato il crollo della sterlina: questo è stato l’effetto di sistemi di questo tipo che, tutti insieme, hanno analizzato dalle notizie di stampa gli effetti della Brexit e, in un giorno, hanno fatto crollare la sterlina. Il crollo è stato effetto di sistemi di questo tipo che stanno già decidendo per noi».

Senza scomodare Orwell, un sistema che fa paura: «Infatti: lasciare queste cose senza politiche che le regolino e le utilizzino nella maniera opportuna è come dare un kalashnikov in mano a un pazzo. È come l’energia nucleare: importante, ma bisogna vedere come la si utilizza».

Ma si tratta di sistemi che – facendo un’operazione (oggi ancora) di fantascienza spinta – una coscienza non arriveranno ad averla mai? «Su questo c’è un dibattito molto acceso – sottolinea il prof. Gaglio -. Il mio punto di vista è che sono sempre macchine. Semmai, possiamo attribuire loro una consapevolezza, una coscienza, ma soltanto dall’esterno. In realtà sono macchine, sono sempre processi di elaborazione di informazioni, che possono essere anche molto sofisticati, ma secondo me non hanno a che fare con la coscienza dell’uomo, che è un’altra cosa. Almeno per quella che è la tecnologia attuale, a meno che la scienza non vada a riprodurre o a fare la vita artificiale in altro modo. Per quella che è la tecnologia attuale, è sempre in gioco l’imitazione: le macchine imitano, ci ingannano in qualche modo, però si tratta sempre di imitazioni di capacità: siamo noi a programmarle, ne programmiamo anche i processi di apprendimento, ma non credo che abbiano coscienza. Ciò tuttavia non cambia molto la questione: anche se una coscienza non ce l’hanno, sono macchine che possono prendere, automaticamente e in maniera indipendente, decisioni: ed è questo è il problema».

L’università di Palermo fa parte di una rete di eccellenza che, con altri centri, porta avanti la ricerca, con applicazioni pratiche: si sta lavorando, ad esempio, su robot utilizzati per i bambini autistici (sembra che questi riescano a comunicare con un robot meglio che con le persone); ci sono stati esperimenti di robotica nei musei, come ad esempio col progetto Cicerobot, il robot che faceva da cicerone nel museo archeologico di Agrigento; ci sono stati anche progetti sul controllo dell’inquinamento e del traffico. «Il problema – rileva il prof. Gaglio – è che tutte queste cose sono sempre episodiche. Il compito dell’università è fare la ricerca e vedere se una cosa è fattibile e in che modo. Poi però in Italia manca una cosa fondamentale: i centri di ricerca e sviluppo delle industrie, che ci sono invece all’estero. La ricerca di base, a livello universitario, è di ottimo livello: il problema è che in Italia non abbiamo centri di ricerca industriale che preparino prodotti innovativi per le aziende e li mettano poi nel mercato». Con la conseguente fuga di cervelli: «In Italia, chi vuole fare ricerca in questo settore, la può fare solo all’università o al Cnr. Con posti, rispetto alle potenzialità, limitatissimi. Non resta quindi che andare all’estero». E torniamo al solito “cahier de doléhances” della ricerca in Italia cenerentola: «Non è un interesse primario per i nostri governanti, il che fa rimanere il Paese sempre più indietro perché costringe l’Italia a comprare dagli altri le tecnologie». Magari, aggiungendo al danno la beffa, realizzate da cervelli italiani costretti ad andare all’estero.

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