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Federica, la paladina siciliana dei diritti umani fra i giovani più influenti d’Europa

Di Maria Ausilia Boemi |

Paladina dei diritti umani e persecutrice di criminali di guerra: Federica D’Alessandra, 29enne nata a Gela e cresciuta a Mazzarino, è stata inserita – come il catanese Diego Cimino (vedi l’articolo dedicato) – nella lista di Forbes degli Under 30 più influenti al mondo. Ben 2 giovani siciliani, quindi, svettano nell’olimpo di Forbes.

Terminato il liceo in Sicilia, D’Alessandra si trasferisce a Milano, dove alla Cattolica consegue la laurea in Scienze politiche, con indirizzo Relazioni e diritto internazionali. Durante il periodo di studi all’università, effettua servizio di volontariato nella Repubblica democratica del Congo, periodi in scambio a Parigi con la Sorbona e con Harvard a Boston, «dove – racconta – sono andata a fare ricerca per la tesi della triennale. Da lì è partita la mia fase internazionale perché, dopo un periodo post lauream in Olanda, a Boston ho sviluppato rapporti con il Centro per i diritti umani alla facoltà di Governo e politiche pubbliche di Harvard e, dopo la laurea, ho cominciato un rapporto di lavoro con loro, che continua tutt’oggi».

Dal 2010 Federica D’Alessandra è di base all’università di Harvard al dipartimento di Governo e politiche pubbliche, dove svolge attività di ricerca su sicurezza e diritto internazionale e fa lezioni su giustizia di transizione, diritto umanitario e prevenzione delle atrocità di massa; quest’anno è inoltre visiting scholar nella facoltà di Legge dello stesso ateneo. Contemporaneamente, ricopre la carica di consigliere/esperto con diverse agenzie estere di governo e ministeri (principalmente Difesa ed Esteri) e organizzazioni internazionali. Infine, è presidente del Comitato per i crimini di guerra e vicepresidente del Comitato per i diritti umani dell’Associazione Legale Internazionale (International Bar Association). «Lavoro direttamente – spiega – con agenzie di governo nazionali e internazionali e anche con organizzazioni come le Nazioni Unite, per esempio, su specifici progetti o programmi di ricerca».

È stata inserita nella lista di Forbes, a suo parere, «perché col tipo di lavoro che faccio, ricoprendo cariche molto alte e lavorando come consigliere tecnico legale, ho l’opportunità di influenzare le consultazioni di chi prende decisioni molto importanti ai massimi livelli e anche perché, lavorando direttamente con agenzie di governo, con i ministeri degli Esteri e della Difesa, spesso e volentieri sono consultata quando si tratta di prendere decisioni, stimare i rischi o la possibilità di successo di certi interventi». Le aree a cui si dedica maggiormente in questo periodo sono la Siria, l’Iraq e il Sud Sudan.

Un lavoro controcorrente, oggi che di moda sembrano andare più le politiche dei muri piuttosto che quelle dell’accoglienza. Eppure, proprio per questo, ancora più importante: «Il problema fondamentale con i muri è che non funzionano, la storia ce lo insegna, ce lo dicono le statistiche: è una politica non lungimirante che non va a toccare le radici del problema. Perché si costruiscono i muri? Perché si vuole instaurare una politica o, comunque, una mentalità di separazione tra noi e gli altri. Questa cosa non fa bene a breve termine perché si creano divisioni all’interno di società che sono già molto spaccate, e anche a lungo andare peggiora la situazione perché i flussi di migrazione non si possono fermare e, con o senza i muri, continueranno ad aumentare. I governi dovrebbero invece capire le cause alla radice di questi movimenti e indirizzare in quella direzione i loro sforzi».

A riprova di ciò, il fatto che la maggior parte dei rifugiati provengono da Siria, Iraq e Afghanistan «perché queste sono persone che fuggono dalla guerra e scappano per sopravvivere. E noi abbiamo l’obbligo di accoglierli sia dal punto di vista del diritto internazionale sia dal punto di vista umano. Senza contare il fatto che i governi e le istituzioni che parlano di muri sono gli stessi (come la Ue) che non si fanno carico della gran parte dei flussi migratori. Ricordiamo infatti che la maggior parte dei rifugiati che fuggono guerre e distruzione si spostano all’interno dei territori limitrofi, quindi in Giordania, Turchia, Libano. In Libano, un quarto della popolazione è composta da rifugiati e, anche se non è un Paese ai massimi indici di stabilità, ha saputo affrontare il problema dei rifugiati senza che scoppiasse una guerra civile o una catastrofe come quelle che paventano le nostre autorità».

Impossibile, in questo contesto, non pensare alle politiche di chiusura del nuovo presidente Usa, Donald Trump: «Io – sottolinea D’Alessandra – sono preoccupata, come penso tutti, anche se spero che il livello di danno che potrà fare Trump possa essere arginata dai pesi e contrappesi che possiede la struttura statale Usa. La realtà è che comunque siamo solo alla terza settimana di presidenza ed è già successo di tutto: uno dei problemi è l’impossibilità di fare previsioni, il che rende impossibile organizzarsi anche solo per arginare parte dei danni. C’è da dire inoltre che Trump non è un fenomeno indipendente, ma fa parte di una serie di situazioni che si stanno verificando anche in Europa (Marine Le Pen in Francia, la Brexit) e questo ha un potenziale importante per quanto riguarda l’integrità delle istituzioni europee. La speranza è che queste e i loro rappresentati ritrovino forza per rinvigorire il progetto europeo, altrimenti c’è veramente un grosso rischio di instabilità a livello mondiale».

A dare fastidio a Federica D’Alessandra nella crisi dei migranti è poi la connessione che si fa tra il terrorismo e l’arrivo dei migranti. «Non ci sono i numeri e i fatti per supportare queste posizioni, sono solo illazioni per creare paura e confusione tra le persone che non sono informate o perché non sanno dove informarsi o perché sono pigre e non vogliono informarsi. È facile dare la colpa a qualche fattore esterno per i problemi che viviamo. Oggi la minaccia del terrorismo fa così tanta paura per la propria incolumità che è difficile preoccuparsi dell’incolumità degli altri. Ma questa mentalità offusca il fatto che l’unico modo per scacciare la minaccia del terrorismo è assicurarsi che a quelle popolazioni su cui il terrore fa presa siano garantiti i diritti umani: se i giovani che si associano alle milizie dello Stato islamico avessero la possibilità di lavorare e guadagnarsi il pane altrimenti, sono sicura che non imbraccerebbero mai le armi».

Nulla a che vedere, avverte però D’Alessandra, con l’esportazione della democrazia che deve essere piuttosto «incoraggiata e nascere dall’interno di un Paese e di una società civile. Io non credo al fatto che la cultura di alcuni Paesi sia incompatibile con i valori democratici. Al contrario, quello che è incompatibile è l’integralismo e il fondamentalismo con cui certi valori religiosi sono interpretati. E perché questo fondamentalismo prende piede? Perché c’è ignoranza nella popolazione, che non sa che quella non è la verità che la religione insegna, ma una sua versione estremizzata».

Federica D’Alessandra vive di base a New York, dividendosi tra la “Grande Mela”, Washington e Boston, ma recandosi almeno una volta al mese in Europa, soprattutto all’Aja e a Ginevra. E mantenendo comunque stretti rapporti con la Sicilia: «Sicuramente la Sicilia è la mia terra, ce l’ho nel cuore, come per tutti i siciliani è impossibile dimenticarla. E mi piacerebbe un giorno avere la possibilità di usare le competenze e le conoscenze che ho sviluppato per fare del bene anche nella nostra Isola. Io mi occupo di giustizia e in Sicilia non mancano certo problemi in questo senso. Questo tuttavia è un orizzonte abbastanza lontano perché in questo momento, purtroppo ma anche per fortuna, lavoro all’estero e, grazie a ciò, ho sviluppato un profilo che credo non sarei riuscita a sviluppare se fossi rimasta in Italia».

Italia che comunque l’ha formata in maniera adeguata: «Sicuramente – conferma – quella in Italia è una formazione valida, anche se devo dire che ora che insegno negli Usa, noto che i modelli e i metodi di istruzione sono completamente diversi. Secondo me, in Italia dovremmo integrare la tanta teoria (ottima per certi versi) con moduli pratici».

E se ammette che della Sicilia le mancano molte cose – «La mia famiglia, anzitutto, i miei affetti, il sole, il mare, il cibo e, a prescindere dalla nostra Isola, l’essere in Italia, avere la possibilità di relazionarmi con persone con cui condivido la lingua e la cultura – ciò che dell’Isola invece non le manca «è la mentalità un po’ fatalista: le cose succedono perché tante cose nella vita non possiamo controllarle, ma sicuramente quello che possiamo controllare è il modo in cui noi ci relazioniamo a ciò che ci accade. Mi sembra invece che il siciliano tenda a vittimizzarsi un po’ troppo».

Da giovane di successo, ai suoi coetanei consiglia «di non avere paura di mettersi in gioco. Prima di tutto, di sviluppare le competenze, senza le quali non si va da nessuna parte. Però le competenze da sole non servono a nulla: bisogna anche sapersi mettere in gioco, non avere paura di affrontare sfide e rapportarsi anche con persone che sono molto più grandi ed esperienti di noi, perché nello scambio c’è sempre da guadagnare».

Obiettivi? «Penso di volere continuare a sviluppare le mie competenze e il mio profilo a livello internazionale: mi piacerebbe poi tanto se ciò cominciasse a essere riconosciuto anche in Italia, se non altro perché sono molto legata alla mia patria e mi piacerebbe potere influenzare anche le politiche dell’Italia, che come Paese ha tanto da dare ai livello internazionale».

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