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Fabrizio Gifuni: «Racconto la voglia di urlare la verità di Pippo Fava»

Di Mariella caruso |

Gli ultimi quattro anni della vita di Pippo Fava, quelli trascorsi dal 1980 quando lo scrittore e giornalista, fondatore de I Siciliani, tornò a Catania, al 1984, quando venne ucciso dalla mafia nell’allora via dello Stadio, nei pressi del Teatro Stabile, sono quelli raccontati nel film tv di Daniele Vicari “Prima che la notte”. Scritto da Claudio Fava, Michele Gambino, Monica Zapelli e dallo stesso regista Daniele Vicari, tratto dall’omonimo libro di Claudio Fava e Michele Gambino, il film tv andrà in onda domani in prima serata su Raiuno in occasione della “Giornata della legalità”. «Più che una storia di mafia, però, Vicari ha voluto dedicarsi a un racconto di libertà e di estrema vitalità fatto con un linguaggio antiretorico», spiega Fabrizio Gifuni, il 51attore romano che nel film indossa i panni di Pippo Fava, in un cast del quale fanno parte anche Dario Aita (Claudio Fava), Lorenza Indovina (Lina), David Coco (Cav. Graci), Manuela Ventura (Cettina) e Aurora Quattrocchi (mamma di Pippo Fava).

Gifuni, quanto conosceva di Pippo Fava prima di interpretarlo?

«Quando ho accettato il ruolo conoscevo un po’ la storia di Fava ma non il suo lavoro teatrale e, soprattutto, non ero conscio della sua straordinaria vitalità intellettuale e della sua capacità affabulatoria».

Che personaggio ha conosciuto?

«Un uomo dai mille talenti, che oltre a essere stato uno dei più grandi talenti del giornalismo d’inchiesta, era un grande artista, intellettuale, una persona che avrebbe potuto spendere i suoi talenti espressivi in molte direzioni. I suoi lavori teatrali venivano rappresentati nei teatri italiani, non solo allo Stabile. I suoi quadri erano una realtà perché aveva una mano molto felice. In quel momento, però, anziché capitalizzare i suoi successi decide di tornare a Catania per motivi pubblici e personali, accettando la proposta di assumere la direzione di un giornale (“Il Giornale del Sud”, dov’era andato dopo essere stato a lungo firma prestigiosa de “La Sicilia”, ndr) perché sentiva che c’era più di un nodo irrisolto nel suo rapporto con la città e con la sua famiglia».

Il racconto segue l’ordine cronologico dei fatti?

«Sì, la prima parte del film è dedicata agli anni di direzione de Il Giornale del Sud fino al licenziamento in tronco a causa dei suoi articoli sulla collusione tra imprenditoria e mafia locale. In quel momento in cui comincia a raccontare di una Catania che tanti non volevano vedere viene licenziato. Fava così ebbe la prova provata che la proprietà di quel quotidiano voleva servirsi di lui per la sua notorietà, ma non c’era la volontà di lasciargli libertà. La seconda parte è dedicata alla straordinaria avventura de “I Siciliani”, mensile nel quale nessuno voleva investire perché tutti sapevano che Pippo Fava era un personaggio imprevedibile con una vocazione innata al racconto della verità. In un momento in cui a Catania si consumava una faida sanguinosa tra i Santapaola (Nitto Santapaola fu poi riconosciuto come mandante) e i Ferlito e nello stesso tempo era in atto un fenomeno di modernizzazione e crescita, gli articoli di Fava che parlavano anche della provenienza dubbia dei soldi investiti per far crescere la città non piacevano tanto. Nel film ci sono anche le parole indimenticabili dell’intervista, che sarà fatalmente l’ultima, rilasciata da Fava a Enzo Biagi il 28 dicembre 1983».

Come viene affrontato, invece, il rapporto familiare?

«Con molta delicatezza e senza alcuno spirito voyeuristico, ma senza ignorarlo perché faceva parte del suo carattere e della sua irrequietezza, della sua voglia di mangiarsi la vita a morsi».

Una vitalità irresponsabile?

«Fava aveva un’incontenibile vocazione alla vita, il “puzzo” della morte insito negli avvertimenti di chiaro stampo mafioso che aveva ricevuto negli ultimi mesi della sua vita sembrava non sfiorarlo. Non si fermava davanti a nulla. Il fatto che a “I siciliani” faceva fatica a quadrare i conti non frenò né lui e né i suoi “carusi”».

I “carusi” hanno un ruolo fondamentale in “Prima che la notte” che si concentra molto anche sulla libertà di stampa.

«La libertà di stampa è uno dei metronomi della salute di una democrazia e oggi, è più che mai necessario parlarne anche in Italia dove ci sono giornalisti minacciati come per esempio Federica Angeli, che vive sotto scorta per le sue inchieste sulla mafia romana. Pippo Fava, in questo, è stato un maestro di giornalismo per i ragazzi della redazione che l’hanno seguito nell’avventura de “I Siciliani”. Quest’ultimo, però, era un mensile che non si limitava al giornalismo di denuncia perché parlava anche di cultura, teatro, ambientalismo, fotografia, periferie. In una scena emblematica del film, quando Pippo Fava, dopo un incontro con Claudio raduna i “carusi” per raccontargli la sua idea de “I Siciliani”, a chi è convinto che il nuovo mensile sia lo strumento per vendicare il torto subito, lui risponde: “Anche, ma io voglio raccontare la vita”. Questa battuta racconta moltissimo delle caratteristiche umane che rendevano Pippo Fava eccentrico, anche nel panorama delle vittime di mafia».

Qual è stato il contributo al film di Claudio Fava?

«Ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura, ma sul set è venuto solo una volta mantenendo molto discreta la sua presenza per evitare di influenzarci essendo stato testimone di quei fatti. Poi, però, ogni giorno sul set si presentava qualcuno che aveva conosciuto Pippo Fava o ne era parente perché, avendo girato tutto il film a Catania dove i fatti si sono svolti realmente, la curiosità era tanta».

Quando avete girato?

«A luglio 2017, c’erano 40° e indossare l’inseparabile giubbotto di pelle di Pippo Fava con quel caldo è stata la cosa più difficile. Ma con i “carusi”, quasi tutti siciliani, abbiamo mangiato granite “a rotta di collo”».

Quindi oltre l’ambientazione anche le inflessioni dialettali sono realistiche?

«Abbiamo lavorato molto sul linguaggio. Per me la conoscenza dei dialetti è fondamentale nel lavoro dell’attore perché ti permette la costruzione di un personaggio. In questo caso ho avuto pochi problemi perché io stesso, pur essendo nato a Roma, ho origini isolane: i miei nonni materni erano di Grotte, un paese in provincia di Agrigento».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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