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Calcio Catania, Lo Monaco ci apre le porte di casa sua e si racconta a tutto campo

Di Giovanni Finocchiaro |

VILLAFRANCA TIRRENA – Tutto vero. Pietro Lo Monaco dorme con un solo occhio chiuso: «L’altro è sempre aperto». Ce lo ripete, alle 10 del mattino, preparando il caffè nella cucina di casa sua, a Villafranca Tirrena. L’unica domenica libera che avrà da qui a luglio la spende aprendo, per la prima volta in assoluto, le porte al cronista: «Stiamo in cucina, è la mia base quando devo riposare». Ceramiche di Caltagirone e pietra lavica, un mix di buon gusto e catanesità: «Ho scelto per la robustezza e la qualità del materiale», ammicca Petrus.

Viviamo con l’ad del Catania una giornata di relax tra ricordi e programmazione futura. Il telefonino è spento: «Ricevo tra 90 e 120 telefonate al giorno». La tele manda a ripetizione i gol degli anticipi di A e della Coppa d’Africa: «O’ Burkina… Che colossi che ha» esclama il direttore al replay del gol di Dayo. E via col primo aneddoto: «Andai per conto dell’Udinese proprio in Burkina per seguire il calcio nel Paese più povero al Mondo. Ero con Maurizio Salvatori del Perugia che il giorno dopo andò via perché lo derubarono. C’era da aver paura per epidemie, furti. Pensi che un trasferimento in aereo per raggiungere la Capitale lo affrontai volando su un mezzo che non aveva chiuso il portellone. Tutto vero. Mi ingraziai una guida del posto, Pascal (lo chiamavo Pasquale) prendendo una banconota di 50 mila lire, strappandola a metà. Una parte la tenni io e gli dissi: “Quando lascerò il Paese se sarai accanto a me ti darò l’altra metà”. Mi seguì fino alle scalette dell’areo…».

Lo Monaco indossa una tuta del Catania. Fuori piove, il rumore del mare arriva e sembra di stare dentro un testo di Battiato. Fuori, nell’atrio di casa, tanto verde, alberi e cespugli di rose: «Le curo io. Vede, adesso le foglie delle piante sono malate, si devono curare. Ho poco tempo, ma quando devo rilassarmi curo il giardino».

Questa domenica i cento che tenteranno di chiamare il direttore trovano la segreteria: «Il lunedì sarà un giorno di fuoco, come gli altri», sbotta Lo Monaco che ogni giorno percorre 280 chilometri, tra andata e ritorno, per raggiungere Torre del Grifo: «La mia casa resta qui, ho trovato questo angolo di serenità quando ancora tutt’attorno c’era poco. Ai miei piace il mare, ogni tanto andiamo a Erice o a Vittoria, altri due posti che fanno parte della mia vita famigliare».

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Il caffè è pronto: «Zucchero?» chiede Petrus. «No grazie». «Com’è venuto?». «Direttore, una delizia. La giusta sveglia». «Guarda, guarda o’ Camerùn». La tv ripropone i gol, Lo Monaco getta uno sguardo su un’immagine che conosce a memoria. E , poi, soddisfa una nostra curiosità: «Potevo andarmene a vivere in Argentina? Ci ho pensato, ma la mia terra è la Sicilia. Sono andato decine di volte laggiù. Si gioca a pallone dalla mattina alla sera: stavo in media dodici giorni durante il mercato o durante le pause del nostro campionato. Guardavo tre partite al giorno, visionavo circa 300 giocatori. Facevo tappa a Buenos Aires. Facile, lì giocano Lanus, San Lorenzo, Velez, River, Indipendiente».

Un procuratore amico, quando Lo Monaco era direttore sportivo del Savoia in C2 (Torre Annunziata era la sua città natale) parlò con Gino Pozzo: «C’è un dirigente in Campania che conosce il calcio internazionale come pochi». Pozzo jr chiamò Lo Monaco: «Faccia l’osservatore, ma senza rimborsi». Petrus rilanciò: «Lavoro gratis per lei per tre mesi, se il mio lavoro soddisferà le sue aspettative, me assume ma come diesse». Pozzo lo tenne in considerazione: «Siamo come due fidanzati, allora: se son rose…».

Racconta e si racconta senza pause, Lo Monaco. Ecco, le rose nel giardino: «Usciamo, le faccio vedere come le poto. Tra un po’ ricresceranno». Si china, mostra i rami appena tagliati e completa il discorso Udinese, società chiave del suo percorso: «Sommese del Nola e Giannichedda del Sora furono i primi nomi che proposi a Pozzo. Andammo insieme a Sora per vedere Giannichedda: subito assunto per 100 milioni. Ah, poi lo hanno rivenduto a suon di miliardi». Nei tre anni trascorsi a Udine, Lo Monaco portò dall’Argentina uno sconosciuto Veron, proponendo Claudio Lopez, non assunto per mancanza di liquidità e poi preso dal Valencia per 10 miliardi.

Uno sguardo al nostro giornale, seduto in poltrona, dalla cucina ci si sposta nella sala da pranzo per gli ospiti, in un trionfo di trofei, targhe e riconoscimenti: «Sono affezionato agli elefantini, premio che per me è simbolico. Si mettono così – li sistema – con la proboscide verso la porta. Ecco, questa è la targa della Nord: “A sostegno di una fede” è la motivazione. Questa targa, ricevuta a Sant’Alfio coglie nel segno». Nella spiegazione c’è scritto che la realizzazione di Torre del Grifo equivale a una partecipazione in Europa: «Vero, verissimo. Adesso che sono tornato e ho messo un po’ di cose a posto, il centro è rifiorito. Corsi pieni, attività ben gestita e clienti in arrivo».

Ci sono i premi ricevuti a Vittoria da Claudio La Mattina, quelli del club di Tino Cannavò, altre targhe e pergamene. In cucina, Petrus ha sistemato lo stemma del Catania, un calendario realizzato da Fabio De Luca con le foto di Filippo Galtieri con la pagina del mese di marzo in cui si vedono Maxi Lopez che esulta e lui, il direttore, nella classica posa severa, che incute timore: «Sono stato giocatore, ho allenato in D, conoscendo il calcio di base, quello senza soldi e senza futuro certo. Un calcio senza contratti e basato su volontariato, rischi e giubbini bucati. Sono stato calciatore anche io. Pensi, a 15 anni debuttati in C con il Savoia, affrontando il Lecce in trasferta. Scrissero che ero una promessa del calcio. Del resto non ti schierano, a 15 anni, in C da titolare. Ho fallito e dunque so che cosa passa, in positivo e in negativo, a ogni ragazzo che transita da Catania. Bisogna avere le palle per andare avanti. Io promettevo, ma ho toppato. A 28 anni allenavo di già, sono diventato uno dei tecnici più pagati in D, insieme a Busetta. Ho smesso perché mi piaceva organizzare».

Eccolo, il passaggio tra vita vissuta e pallone è un filo sottilissimo: «Nella mia vita sono stato abituato a gestire le difficoltà. Andavo a scuola con il cartone nelle scarpe per coprire i buchi. E non me ne vergogno. Non avevo i soldi per comprare i libri e li prendevo in prestito dai compagni solo per qualche ora. Avevo una grande capacità di immagazzinare nozioni e così ho ottenuto il diploma di perito elettrotecnico. Era la fame di apprendere sempre tutto. Forse ero tagliato per fare il dirigente, ma la buonanima di mio padre non ci credeva tanto. Mi diceva: quando arriverai in Serie A potrà morire sereno».

E, con la faccia buia, Lo Monaco, racconta – scoprendo un nervo umano e confidenziale inedito – una storia triste: «“Quando arriverà in Serie A potrò chiudere gli occhi sereno”. L’Udinese andò in A nel 1995, un mese dopo mio padre morì».Il Catania è la vita di Petrus: «Anche quando me ne sono andato, il 21 maggio 2012, sono rimasto legato al Catania. Soffrivo a distanza, sapevo che un giorno sarei tornato, avevo lasciato una macchina perfetta costruita da zero dopo aver rilevato, grazie all’amore del presidente Pulvirenti (accettò a scatola chiusa, debiti compresi, tutto il pacchetto: zero giocatori, solo soldi da pagare) la società dai Gaucci. Barrientos è il calcio, Ledesma il mio grande cruccio: infortuni e il non adattarsi al nostro calcio lo hanno limitato. Martinez e Vargas a Catania hanno fatto faville per anni. Non erano meteore, ma la maglia pesa e quando hanno accettato nuove sfide non si sono adattati alla perfezione. A Catania erano colossi».

La premessa, o se preferite la promessa, era di non parlare del Catania di oggi. All’ora di pranzo ci accommiatiamo, ma scatta la domanda. Come sta il Catania, oggi? Lo Monaco accenna: «Abbiamo ridotto da 16 a 9,8 milioni il debito, siamo in attesa del piano di rifinanziamento della Finaria, la proprietà farà di tutto per continuare a fare del Catania un’azienda viva, ma la Lega Pro è un campionato complicato. I play off sono alla portata, arriviamoci nella maniera più comoda possibile. Il pubblico ha vissuto troppi episodi negativi rischiando di perdere la matricola 11700. Ma i tifosi sono innamorati del Catania: faremo tutto quello che è possibile per riportare la società in B anche se non sarà semplice».

Anche per questo – pure in questa “strana” domenica – Lo Monaco resta sempre Lo Monaco.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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