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Addio a monsignor Riboldi: sempre in prima linea, dai terremotati del Belice alle vittime delle camorra

Di Redazione |

NAPOLI – Una vita in prima linea. Quella di monsignor Antonio Riboldi – nato a Triuggio (Milano) il 16 gennaio 1923 e morto oggi a Stresa – che nel 1968, dieci anni dopo essere arrivato a Santa Ninfa, nella Valle del Belice, in Sicilia, fu vicino ai suoi fedeli scossi dal terremoto. Ma soprattutto si fece megafono delle loro sofferenze e portò in tutte le sedi, financo nei palazzi del potere a Roma, la protesta del popolo per le ruberie, gli sprechi ed i ritardi che si erano accumulati nel corso degli anni. In una trasmissione dell’11 aprile 1977 denunciò senza mezzi termine una situazione vergognosa. «Come essere prete lì in mezzo? Come si fa a dire a un uomo che per nove anni vive nelle baracche dove ci sono topi e dove piove, Dio è qui e ti ama? Come trasmetterlo questo messaggio d’amore a un uomo che non capisce più bene se vivere è sopravvivere o realizzarsi?». 

Un “Fate presto” il suo che di fatto anticipò il monito del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, dopo la visita alle zone terremotate dell’Irpinia, nel 1980, chiese con vigore di dare concreta ed immediata attuazione a un piano per la ricostruzione. Riboldi aveva svolto la sua prima esperienza come parroco, a Novara. Prima gli studi all’Università, facoltà di Lingue, poi interrotti per la sua missione di ‘rosminiano’, chiamato dall’ordine a predicare tra la sua gente. Subito dopo l’esperienza come parroco a Montecompatri, vicino ai Castelli Romani. Nel ’58 l’approdo in Sicilia che avrebbe impresso una svolta alla sua vita di uomo e sacerdote. «Quella vicenda – ricordava Riboldi – mi ha profondamente cambiato. Da prete di sacrestia, da prete-prete sono diventato prete di strada, dalla parte di chi non ha casa, di chi subisce le ingiustizie, di chi si mette a lottare contro ogni forma di illegalità».

Nella seconda parte della sua vita pastorale un altro macigno davanti a lui. Nominato vescovo da Paolo VI nel 1978, fu chiamato alla Diocesi di Acerra (Napoli) in anni bui, dove i clan si combattevano a colpi di omicidi e c’era in campo il superboss Raffaele Cutolo. Riboldi prese posizioni coraggiose, in prima linea contro la camorra e cercò anche di favorire, laddove possibile, la dissociazione di personaggi che avrebbero potuto rompere col passato di sangue. Con le sue denunce, con le sue richieste a nome della gente onesta si è guadagnato l’appellativo di vescovo anticamorra. «Nella mia vita – spiegò in occasione della festa per i suoi 50 anni di sacerdozio nel 2001 – ho imparato che è fondamentale andare tra la gente a diffondere il Vangelo, non rassegnarsi mai, non aspettare gli eventi. Ho capito che bisogna sporcarsi le mani con i problemi dell’uomo». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA