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Delitto Loris, ecco che cosa ha detto (parola per parola) Veronica ai giudici

Di Mario Barresi - Nostro inviato |

Ragusa. L’unica cosa «sconvolgente», alla fine, è l’assenza di Davide Stival in aula. Per la prima volta dall’inizio del processo. Non c’è. Nemmeno dopo l’ultimo disperato appello della moglie, in carcere, la scorsa settimana: «Devo dirti cose sconvolgenti». Implorandolo: «Mi crederà anche il giudice, ma prima devi credermi tu».

Dal carcere di piazza Lanza ieri mattina arriva a Ragusa alle 10,10. Giubbotto e pantaloni neri, maglione grigio, capelli sciolti. Sta bene. È pallida, ma più rotonda. E, appena entrata nell’aula dell’interrato, Veronica Panarello dà uno sguardo ai banchi. Ci sono tutti. Tranne uno: Davide. Se aspettava una risposta, l’ha avuta. Forte e chiara. «Lui non le crede», sottolinea Davide Scrofani, avvocato del marito.

Un sospiro. Un cenno d’intesa con il suo avvocato. E poi via, tutto d’un fiato. Con questo incipit, magari diverso da quello rimuginato guardando il tetto della cella: «Di tutto mi si può incolpare, ma non dell’omicidio». Del figlio Loris Stival, di otto anni.

Niente contraddittorio, nessuna domanda. Va in scena il monologo finale di Veronica. Che, per chi si aspettava colpi di scena o nuovi elementi, è una delusione. Ma nelle dichiarazioni spontanee rese ieri al gup Andrea Reale c’è la summa dell’ultima verità della madre accusata.

Lucida; fluente, anche se quasi monocorde; risoluta. Rivendica subito di aver «fatto da padre e da madre ai miei figli, perché mio marito era sempre lontano per lavoro». Ma a Davide, il convitato di pietra, Veronica riserva un’altra goccia di dolcissimo fiele: «Sono pienamente cosciente di aver sbagliato e ho chiesto e continuerò a chiedere perdono a mio marito».

In un’ora e mezza di udienza, con 20 minuti di pausa, Veronica ripercorre tutte le tappe. Dall’amnesia ai primi flashback durante la visita al cimitero, confidati a una psicologa del carcere di Agrigento. Poi l’unica bugia che ammette (la versione di Loris che si strangola da solo mentre gioca), ma che giustifica: «Avevo paura della vendetta di quello che era con me quel giorno». Non lo nomina, nei primi minuti, ma anche i sassi sanno di chi sta parlando. «Ho capito che dovevo fare veramente giustizia. E pertanto – scandisce con tono solenne – oggi confermo quanto segue: quella mattina non ero sola. C’era mio suocero Andrea Stival». Il quale, indagato per concorso in omicidio e occultamento di cadavere, annuncia – tramite il suo avvocato, Francesco Biazzo – una querela per calunnia all’imputata. «Troppo fango, s’è mosso», dice Andrea sgusciando dalle scale del tribunale.

Eppure Veronica torna all’assalto del suocero. «Anche se non riesco a dimostrare che quella mattina non ero sola, io quella mattina non ero sola». E prova ad avvinghiarlo al suo destino. «Quando sua figlia è andata via di casa, Andrea si è appoggiato a me per ogni esigenza. Pensavo a tutto io: mangiare, vestiti…». Poi rivela un particolare: «Ho avuto uno shock anafilattico, ma forse era più uno stato depressivo. Andrea ha approfittato di questa mia debolezza per arrivare a ciò che gli interessava. Ho avuto una relazione con lui». All’inizio «i complimenti, lo stare sempre insieme. È come se Andrea avesse preso il posto di mio marito». Lei sperava che «la relazione con Andrea finisse, avendo lui conosciuto una nuova compagna», ma anche che «Davide si accorgesse di qualcosa, ma lui non c’era mai». Tutto si rompe quando il bimbo «aveva visto qualcosa che non doveva vedere». Racconta Veronica: «Ci incontravamo una volta alla settimana, a volte a casa sua, a volte dentro casa mia quando i bambini dormivano. Una sera abbiamo avuto un rapporto sessuale e Loris, svegliatosi, ha scoperto tutto». Da allora «tutto diventò più pesante». Loris «mi faceva domande spesso e io cercavo giustificazioni stupide». Divenne «assillante» e disse che «avrebbe raccontato tutto al papà».

Sembra stanca. «Io non ho ucciso Loris e mai dirò quello che non ho fatto», dice prima della pausa.

Al rientro annuncia un crescendo di dettagli: «Vorrei entrare nei particolari». Veronica attribuisce precise responsabilità al suocero («lo incontrai a piedi, venne come pensando che i bimbi fossero entrambi a scuola»). Lui la precede sulle scale, lei lascia l’auto in garage: «In inverno la metto sempre dentro», dice, quasi per giustificare l’insolito comportamento. «Arrivata a casa, Andrea e Loris stavano discutendo, Loris era agitato e continuava a dire che voleva raccontare tutto al papà». A questo punto «Andrea mi chiese qualcosa per tenere fermo Loris, era dentro la cameretta. Suonò il telefono: era mio marito. Cercai di essere breve nella telefonata, ma rientrata nella cameretta vidi Andrea che stringeva il cavetto al collo di Loris». L’unica sua colpa nel delitto: «Andrea mi chiese di prendere qualcosa per poterlo tenere fermo, e allora presi le fascette e gliele misi io ai polsi». E non attorno al collo. L’arma del delitto viene esibita con meditata lentezza: «Fu un cavetto usb grigio a tre entrate». Lei prova a fare qualcosa: «Diedi uno spintone ad Andrea, poi mio figlio cadde per terra e io andai in confusione». Andrea «mi strappò il telefonino, dicendo di non cercare aiuto».

E poi il trasporto del cadaverino. Sulle scale «ero da sola per scendere in garage». Il bimbo è sulle spalle di nonno Andrea, perché «io non ci sarei riuscita». E, con «le gambe che mi tremavano», la donna ricorda: «Loris fu messo davanti coperto da un plaid, Andrea sedette dietro di me». Lui «sapeva dove andare, mi fece strada, quella strada io non la conoscevo». La scena finale: «Nel canalone lo gettò Andrea, io non sapevo che fosse così profondo».

Il viaggio di ritorno dal Mulino Vecchio. «Andrea parlava in continuazione, era preoccupato del telefonino dimenticato a casa». I due si separano («si fermò in una strada che porta verso casa mia») e Veronica torna a casa a ripulire la scena del crimine. «Tornai a casa, presi le fascette, che ripeto erano state messe solo ai polsi (ancora un refrain sull’arma del delitto, ndr), le mutandine, le misi nello zainetto e buttai tutto dal finestrino». Sulla strada verso il castello di Donnafugata. «Speravo che tutto fosse un brutto sogno».

Veronica va in crescendo: «Signor giudice, io ho sbagliato, chiedo di essere punita. Ma lo deve essere anche chi era con me quel giorno. Mi avete negato il confronto con lui (sul quale l’avvocato Villardita nutre ancora «moderate speranze», ndr), il vero carcere che sto vivendo è sapere che non c’è più Loris».

Il verdetto si avvicina con un calendario serrato: lunedì 3 ottobre la requisitoria dell’accusa; il 5 le parti civili; il 7 l’arringa della difesa. Poi, al netto delle repliche, la sentenza.

Veronica l’aspetta. E incalza nel Gran Finale: «Io non ho ucciso mio figlio. E invito chi era con me a liberarsi la coscienza: confessi anche lui». Il climax raggiunge l’apice: «Nei primi mesi ho mentito, ma appena ho ricordato ho parlato. Questa è l’unica verità che esiste. Lei, signor giudice, è libero di credermi». Ma anche di non crederle.

Come, da quasi due anni, non le credono il procuratore Carmelo Petralia e il pm Marco Rota, ieri indifferenti dopo l’ultimo racconto.

E non le crede il marito Davide. Che, a debita distanza, vive un «profondo senso di amara delusione».

Twitter: @MarioBarresi

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