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Covid: consulenti lavoro, smart workers in Pa centrale doppiano quelli negli enti locali

Di Redazione |

Roma, 7 set. (Labitalia) – Forte disomogeneità nell’esperienza smart working del pubblico impiego. In base alle analisi elaborate da Fondazione studi consulenti del lavoro su dati della Ragioneria dello Stato e Formez, le funzioni centrali hanno fatto ricorso al lavoro agile molto più che gli enti locali. Ministeri e agenzie fiscali, infatti, a settembre 2020 avevano il 71,1% del proprio personale connesso da remoto; una percentuale che toccava il 69,4% tra insegnanti e accademici e ‘crollava’ al 30,9% in Regioni, aree metropolitane, Comuni. Nel comparto sanitario solo l’8,3% dei dipendenti pubblici ha lavorato da casa durante il picco dell’emergenza. In attesa di indicazioni sulla composizione della quota del 15% indicata dal ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, come percentuale d’applicazione dello strumento nella Pa, Fondazione Studi ricostruisce la curva degli smart workers negli ultimi 18 mesi. A marzo 2020, su 3,2 milioni di dipendenti pubblici, 1,8 mln erano in smart working (56,6%). Già in settembre, una buona parte era però tornata in presenza, e meno della metà dei dipendenti pubblici (46,2%, pari a 1,5 milioni in termini assoluti) era interessato da tale modalità di lavoro. A maggio 2021, poi, secondo l’indagine svolta dai consulenti del lavoro su un campione di lavoratori della Pa, la quota di dipendenti pubblici in smart working risultava essere il 37,5%: in termini unitari si trattava di 1,2 mln di lavoratori che dovrebbero diventare circa 500 mila secondo la via tracciata dal responsabile di Palazzo Vidoni. Al di là di quelle che saranno le indicazioni del Ministero appare indubbio che se da un lato, il lavoro agile dovrà inevitabilmente essere ricondotto nell’alveo di una sua fisiologica funzionalità, dall’altro l’innovazione introdotta dal nuovo modello, dovrà essere supportata da quell’innovazione organizzativa che lo stesso smart working potrebbe avere innescato. “L’esperienza maturata – commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi consulenti del lavoro – nel periodo emergenziale, che ha improvvisamente obbligato un elevatissimo di lavoratori a operare da casa, va utilizzata per migliorare lo strumento e renderlo una modalità di lavoro alternativa. Certamente è necessario un intervento normativo che meglio regolamenti i diversi diritti e doveri delle parti del rapporto, come possono essere il diritto alla disconnessione, la reperibilità ovvero il controllo da remoto. Insomma, lo smart working va ben strutturato in modo da farlo diventare un’opportunità per il futuro ma certo non può essere l’unico modo in cui viene svolta la prestazione lavorativa. In questa chiave, è decisivo che il processo di digitalizzazione della Pa, e tutto quello che comporta (dalla semplificazione allo sviluppo delle competenze digitali dei dipendenti) abbia un’accelerazione, anche nell’ottica di attuazione dei progetti del pnrr. “Decisivo – osserva De Luca – sarà anche il ruolo della dirigenza pubblica, chiamata in questo momento a reinventarsi, per trainare una trasformazione organizzativa che, se l’esperienza dello smart working non vorrà essere definitivamente abbandonata, dovrà confrontarsi con temi che ancora stentano a trovare piena attuazione nel contesto della Pa, come individuazione degli obiettivi e misurazione dei risultati”. “Digitalizzazione e semplificazione – continua – sono strade maestre per efficentare la Pa. L’occasione non può essere persa, anche per l’eccezionale disponibilità di fondi”. “Intervenendo – suggerisce – per rendere possibile lo smart working si ammodernano allo stesso i processi produttivi dei servizi, a tutto vantaggio della collettività”.

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