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Trapianti: nefrologa Furian, ‘rene da donatore vivente fa la differenza’

Di Redazione |

Roma, 29 ott. (Adnkronos Salute) – In Italia ci sono 8mila pazienti in attesa, da almeno 3 anni, di un trapianto di rene da deceduto. Un modo per ridurre i tempi di attesa ed evitare che il paziente debba ricorrere alla dialisi ci sarebbe. Si tratta del trapianto di rene da donatore vivente. Una possibilità di cui Lucrezia Furian del Centro trapianti rene e pancreas dell’Azienda ospedaliero universitaria di Padova parla in un’intervista pubblicata sul sito ‘Alleati per la Salute’ (www.alleatiperlasalute.it ), il portale dedicato all’informazione medico-scientifica realizzato da Novartis. “Il donatore da vivente oltre ad azzerare la lista d’attesa – afferma Furian – permette al paziente di evitare il ricorso alla dialisi”. Un fratello gemello o un familiare consanguineo, dunque, avendo il patrimonio genetico identico nel primo caso, simile nel secondo, “possono davvero fare la differenza – ancora l’esperta – restituendo a una vita praticamente normale, una persona che ha un’insufficienza renale cronica terminale e deve ricorrere alla dialisi. Quando il trapianto avviene da vivente l’organo funziona subito, non serve un periodo di dialisi come accade, a volte, nel caso dell’organo da paziente deceduto che ha un periodo di latenza, prima di riprendere a funzionare. Il donatore, infatti, deve essere una persona sana e quindi trapiantiamo un rene che ha caratteristiche migliori in assoluto. Questo non significa che il trapianto da donatore deceduto non possa dare ottimi risultati”. In base ai dati disponibili, nel periodo 2001-2016, a un anno dal trapianto, la sopravvivenza media dell’organo da donatore deceduto è del 92% e del 97% nel caso di un donatore vivente. Le malattie del rene, “che possono causare insufficienza renale cronica e terminale che richiede un trattamento sostitutivo (dialisi o trapianto) sono: il diabete, l’ipertensione, la glomerulonefrite. Nel 20% dei casi, però, non è diagnosticabile”, spiega Furian. Nel nostro Paese sono 5 i centri che eseguono più di 20 interventi da vivente ogni anno, che diventano 50 nel centro di eccellenza dell’Azienda Ospedaliera di Padova. Gli altri riferimenti sono: presidio ospedaliero Molinette – Aou Città della Salute e della Scienza di Torino; ospedale Borgo Trento – Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona; policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna; policlinico Umberto I di Roma. Il trapianto di rene da vivente è una procedura eseguita da molti anni, tuttavia in Italia non è molto diffusa: nel 2019 il 15,9% dei trapianti di rene è stato fatto da donatore vivente (340 su 1797 da donatore deceduto), in aumento, considerando il 13,8% del 2018. “Ma rispetto ad altri Paesi – ammette Furian – sicuramente è un numero che può essere migliorato. In Gran Bretagna e Stati Uniti il trapianto di rene da vivente rappresenta oltre il 30% degli interventi”. “I margini per un passo in avanti ci sono, anche perché il numero dei donatori è in aumento con un +50% rispetto al 2012. Ma per fare un salto di qualità “la sensibilizzazione dei nefrologi e il coinvolgimento delle famiglie è un aspetto da sviluppare per questo programma, preferibile a quello del trapianto da donatore deceduto se non altro per i tempi di attesa”, spiega la nefrologa. Tra i vantaggi del trapianto di rene da donatore vivente, secondo Furian, c’è anche la tecnica mininvasiva: “Oggi non si fanno più grandi incisioni a livello addominale – sostiene l’esperta – ma si interviene con tecniche laparoscopiche. Il paziente ha, come cicatrici, un taglio di 6 centimetri nella parte bassa dell’addome, simile a un parto cesareo, e altre tre incisioni sull’addome da un centimetro ciascuna. Questo è importante non solo da un unto di vista estetico, ma anche per la rapida ripresa dall’intervento”. Il ricovero dura in genere 3-4 giorni e le attività lavorative e persino sportive possono riprendere dopo circa 2 settimane. Per il resto della sua vita il donatore deve sottoporsi periodicamente a controlli, per verificare la funzionalità del rene residuo che, di solito, è ben conservata. Il rischio di sviluppare un’insufficienza renale cronica, nei soggetti che hanno donato un rene, in base ai dati scientifici, è dello 0,9%. Si tratta di un valore basso, se si considera che nella popolazione generale è del 3,2%, ma leggermente più elevato rispetto a soggetti sani che non hanno donato il rene (0,14%). In merito al donatore, Furian non ha dubbi: “Dobbiamo informare e spiegare a paziente e donatore cosa prevede questo percorso, quali i rischi, che sono minimi, ricordandoci che il primo obiettivo è la tutela della salute del donatore”. La procedura per diventare donatori richiede una raccolta di informazioni su patologie e familiarità del donatore, quindi si indaga sulla sua funzionalità renale e degli altri organi vitali. Infine, si eseguono esami specifici per capire quale dei due reni è il migliore candidato al trapianto. L’intervento integrale dell’esperta è disponibile su: https://www.alleatiperlasalute.it/alla-scoperta-di/trapianto-del-rene-da-vivente

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