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Governo Gentiloni, riecco Anna dei Miracoli e Angelino il globetrotter

Di Mario Barresi |

Eppure rieccoli lì, i due ministri siciliani, nel nuovo governo di Paolo Gentiloni: il ritorno in grande stile della catanese Anna Finocchiaro (ai Rapporti con il Parlamento) e la conferma dell’agrigentino Angelino Alfano, che ha chiesto e ottenuto il trasloco dal Viminale agli Esteri. Due posti delicati e di prestigio, nella squadra di un premier che ha tirato fuori dalla naftalina la delega per il Mezzogiorno, assegnata a Claudio De Vincenti.

Quando il gioco si fa duro, le dure cominciano a giocare. E non è un caso che in un governo che ha la priorità assoluta di rifare la legge elettorale, sulla sedia più scottante ci stia Anna dei Miracoli. Dopo il fallimento della sua “allieva” Maria Elena Boschi (a Catania ricordano ancora gli occhi adoranti con i quali l’ex ministra delle Riforme ascoltava la presidente della commissione Affari costituzionali declinare la Grande Bellezza della riforma, poi bocciata dal referendum), adesso tocca alla “maestra”. La senatrice del Pd, ieri elegantissima – non per l’occasione, ma come sempre – per il suo secondo giuramento, dopo quello del 1996 da ministro (all’epoca si declinava solo al maschile) delle Pari opportunità del governo di Romano Prodi. Di origini modicane, ma catanese d’adozione, magistrato, Finocchiaro entrò in parlamento nel 1987. E non è mai uscita, anche grazie alla deroga al limite dei 15 anni di mandato introdotto dal Pd.

Stimatissima e odiata, temuta e criticata, la ministra-chiave per cambiare le regole elettorali ha vissuto da protagonista di stagioni diversissime. Dal Pci alla svolta di Occhetto, alla Bolognina fu Violante ad asciugarle le lacrime: «Ho visto arrivare per fax il simbolo del nuovo partito, e non ho retto». Dalla mortadella di Romano alla nutella di Veltroni, fino alla ditta di Bersani. Dalemiana d’acciaio (Baffino stravedeva per lei), è diventata il punto di riferimento di Renzi per le più delicate missioni costituzionali e non soltanto. E dire che con Matteo – all’epoca ambizioso sindaco di Firenze e aspirante rottamatore dem – volarono parole grosse. «Mi spiace, ma non può diventare Presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea», disse Renzi. E lei gli rispose: ««Sai cosa sei? Sei un miserabile!». Il riferimento è alle foto di un settimanale di gossip: i tre uomini della sua scorta spingono il carrello, con dentro padelle antiaderenti. Lei prova a difendersi: «Avere la scorta non è un piacere. Nonostante ciò, cerco di fare una vita normale». Era il 2012: la maledizione durò fino alla primavera dell’anno successivo, quando Renzi le segò la candidatura a capo dello Stato. «Un uomo con il mio curriculum sarebbe già stato nominato Presidente della Repubblica da tempo», era stata la stizzita reazione nel 2006, quando Prodi la propose, invano. L’Ikea-Gate è l’unico inciampo (oltre alla condanna del marito Melchiorre Fidelbo, 9 mesi in primo grado per abuso d’ufficio nel processo su un appalto all’ospedale di Giarre) di una carriera prestigiosa, ma sempre a debita distanza dall’Isola. Con una parentesi, il “sacrificio” per la candidatura alla Regione contro Lombardo nel 2008, finita con un modesto 30,38% di voti dei siciliani.

Molto più siculo, invece, è sempre rimasto Alfano: avvocato e pubblicista, 46 anni, non ebbe il tempo di esprimere il suo talento nell’under 21 democristiana che si trovò già catapultato nell’era berlusconiana. «Nel 1994 – ha raccontato – mi sono unilateralmente innamorato di Silvio. Innamoramento da tubo catodico: ho aderito a lui vedendolo in tv». Con un talent scout come Micciché, “Mr. 61-0”, con cui ha oggi un rapporto di goliardico odio (ricambiato). Consigliere provinciale e poi deputato all’Ars a 25 anni, nel 2001 vola a a Montecitorio. Dove si fa apprezzare dal Cavaliere. Che nel 2008 lo chiama nel delicatissimo ruolo di ministro della Giustizia: il più giovane Guardasigilli della storia d’Italia. Sembra destinato, soprattutto dopo la rottura con Fini, a prendere il posto di Berlusconi a capo di Forza Italia e del centrodestra. Nonostante quella fatwa («Ad Angelino manca il quid») pronunciata dal capo quasi per scherzo, poi diventata il jngle dei suoi detrattori.Ma Alfano, in comune con la Finocchiaro (con la quale più volte si scontrò sui temi della giustizia) ha la tenacia. È andato avanti. A testa bassa. Diventando ministro dell’Inerno col governo Letta, ruolo mantenuto con Renzi. In mezzo l’addio a Berlusconi e la fondazione di Ncd, «una scelta per salvare l’Italia». Al Viminale ha assunto un cipiglio istituzionale, guadagnandosi (Salvini a parte, sua spina nel fianco) una stima trasversale. Anche di chi gli ha perdonato almeno un paio di gaffe ministeriali: dalla rivelazione sull’arresto dell’assassino di Yara al ben più grave caso Shalabayeva.

Alfano va avanti. Fedele alleato del Pd, coltiva il sogno di «un partito dei moderati» nel quale i suoi ex amici forzisti non lo vogliono. Ma lui ci riproverà. Da un’altra poltrona di prestigio: la Farnesina, ultima tappa del globetrotter agrigentino. Che ha difeso i suoi di Ncd dalle numerose inchieste giudiziarie e ha aspettato che si allentasse la morsa mediatica sulla carriera-lampo del fratello Alessandro alle Poste. Semmai non dovesse avere il quid, di certo ha la tempra per resistere. Ed esserci. Ancora. Assieme ad Anna, l’altra “predestinata”, si accontenta di fare il super ministro. Poi, dopo, si vedrà.

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