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Il declino dell’utopia lo “spaesaggio” e il sisma interiore

Di Salvatore Scalia |

La ventottenne Ada Parisi sintetizza efficacemente la parabola dell’utopia di Gibellina: “Prima del terremoto del 1968 eravamo pastori e agricoltori e tali siamo rimasti.” Lavora nel bar di famiglia collocato dentro Meeting, un edificio ideato da Pietro Consagra, commistione di vetro, acciaio e cemento. È cresciuta avendone negli occhi le linee sinuose, le ha toccate, ne ha vissuto la funzionalità e ha respirato lo spirito egalitario dell’artista, teorico della Città frontale in cui fosse eliminato il divario tra arte e vita. Ha anche sperimentato lo straniamento di spazio e tempo che intercorre tra Meeting e il razionalismo poco distante del municipio di Vittorio Gregotti, Giuseppe e Alberto Samonà, in pietra arenaria, gialla e rossiccia, spugnosa e intrisa di memoria. Ha passeggiato nel Sistema delle piazze di Franco Purini e Laura Thermes, un luogo metafisico, un vuoto che contempla sé stesso. È legata al suo paese e figlia senza rimpianti della modernità.

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Il divario tra arte e vita resta incolmabile nella Chiesa Madre di Ludovico Quaroni, in alto sulla collina. Il senso di separatezza, che ha un preludio nella lunga scalinata, è ineludibile nella forma, un parallelepipedo e una grande sfera bianca: l’uno simbolo della perfezione umana, l’altra dell’universo e della totalità divina.

Quando fu completata, si racconta che l’arciprete, venuto a benedirla, ne fu tanto contrariato da promettere che mai vi avrebbe celebrato messa.

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Sia che avesse ottime relazioni col Padreterno, sia che gli esseri umani sono perfettibili ma non perfetti, la sfera della chiesa palla il 15 agosto del 1994 crollò. Errori di calcoli e di progettazione, materia per giudici, ma l’effetto simbolico è stato ben più devastante: si dimostrò la fragilità dell’utopia.

Negli anni della ricostruzione, tra il 1979 e il 1981, si credeva alla creazione dell’uomo nuovo. A Gibellina se ne fece interprete il sindaco e più volte senatore Ludovico Corrao (1927-2011), intellettuale lungimirante, dotato di sensibilità artistica, narcisista e megalomane. Con la collaborazione di Sciascia e Guttuso e di un grande numero di artisti fece della nuova Gibellina un grande museo all’aperto e una città teatro. E lui era tra le primedonne con le sue lunghe sciarpe e i cappelli a larghe tese.

Con la Fondazione Orestiadi il piccolo paese per un decennio dal 1982 al 1992 è stato anche un importante centro di produzione teatrale e culturale, punto d’incontro di civiltà e culture. Poi il caso ha fatto coincidere i tagli dei finanziamenti regionali, un miliardo e duecento milioni, con il declino del senatore e della sua creatura: dal crollo della sfera alla sconfitta elettorale, dalla crisi finanziaria della Fondazione all’esilio nel Baglio Di Stefano sulla collina, dalle ripicche alle minacce di sfratto.

Per definire Gibellina, il giovane architetto Gioacchino De Simone, assessore all’urbanistica, ha coniato la parola spaesaggio. sintesi di paesaggio e spaesamento.

Superata, infatti, la Porta del Belice, la grande stella di Pietro Consagra collocata all’ingresso del paese, entri in un mondo senza storia e senza stratificazioni sociali, e ne cerchi invano il cuore pulsante. Tutto crea smarrimento, persino il canto di un gallo che s’innalza celato da un freddo ordine geometrico.

“Ci manca un centro, – afferma il sindaco, il medico Salvatore Sutera – ogni paese nasce per agglomerazione intorno a un nucleo centrale, che qui non esiste.”

Lo spaesaggio è fatto di strade larghe e deserte, di ampie piazze, punteggiate da opere d’arte astratte. Il senso di vuoto diventa disagio esistenziale e ansia metafisica.

“Qui ci vorrebbe uno psichiatra,” dice il sindaco.

Il sisma, che distrusse la Valle del Belice nel gennaio del 1968, assunse tante valenze simboliche, come se sotto le macerie delle case di arenaria fossero seppelliti secoli di povertà, mafia e sottomissione. La prima scelta traumatica fu la ricostruzione di un paesino di montagna in pianura a una ventina di chilometri di distanza, in un terreno acquitrinoso tra Santa Ninfa e Salemi. Fu disegnato dagli urbanisti ministeriali come una sorta di nuova Brasilia, non tenendo conto che si trattava di una piccola comunità di agricoltori e pastori e non di burocrati di una grande nazione.

Con il declino dell’utopia, la vocazione naturale del territorio ha ripreso il sopravvento, anche perché l’eredità lasciata da Corrao è difficile da gestire per un piccolo comune che ha un deficit di 350 mila euro.

L’estetica dell’arte povera imponeva l’uso di materiali deperibili che soffrono di ruggine, umidità, vento, sole e pioggia.

Nell’Agorà, collocata in un’ala del municipio e dove una volta si celebrava la messa, il grande mosaico del futurista Gino Severini è assediato dalla muffa. Sul pavimento ristagna l’acqua.

Ada Parisi, mentre serve caffè e cornetti, si rammarica: “Abbiamo un grande patrimonio artistico ma non lo sappiamo sfruttare.”

L’ex sindaco Vito Bonanno, segretario comunale nella vicina Santa Ninfa, dice che Corrao fu spinto da una grande idealità ma “che la sua opera non viene valorizzata ed anzi è vissuta come palla al piede. C’è un grande progetto senza manutenzione.”

Si vive il rimpianto di una perduta età dell’oro, quando Gibellina era una capitale della cultura e l’intera comunità era coinvolta nell’allestimento degli spettacoli: sarte, artigiani, attori, comparse. Tra luglio e agosto un ragazzo guadagnava un milione e duecentomila lire.

La nonna, da cui Ada ha ereditato il nome, è desolata. Bionda e riccioluta, con orecchini di perle, sorseggia un caffè da un bicchierino di plastica, all’aperto sotto un’arcata del Meeting. Ha 77 anni e da 54 vive a Gibellina. Originaria di Frosinone, dove conobbe il marito che faceva il militare, lo seguì in Sicilia. Avevano un bar, e, dopo il terremoto, lo riaprirono in una baracca. “Con la ricostruzione ci dissero che dovevamo trasferirci, altrimenti ci avrebbero ritirato la licenza.”

Rievoca il fervore dei preparativi, l’entusiasmo, le speranze, le grandi spese sostenute.

“Tutto era lussuoso. Oltre al bar, nei piani superiori c’erano la sala da ballo e da biliardo. Ora non c’è più niente. Prendo una pensione di 512 euro al mese, non mi bastano neanche per il rossetto e il parrucchiere.”

Il turismo sfiora Gibellina: 250 mila visitatori l’anno vanno a Segesta e a Selinunte.

“Basterebbe – dice il direttore del Museo della Trame mediterranee Enzo Fiammetta – attrarne una parte, ma chi viene nella Sicilia occidentale ha in mente testimonianze greche e romane o arabo normanne, a stento visita Mozia.”

Declinata l’utopia, agricoltura e pastorizia costituiscono le principali attività produttive: olio, vino, ricotta, melone giallo. Ci sono quattro ristoranti, e un centinaio di posti letto. Gibellina è in una posizione geografica strategica: si pernotta qui e poi si girano le località del Palermitano e del Trapanese fino all’Agrigentino. L’azienda più importante è una cantina che sponsorizza le Orestiadi, con 40 mila euro l’anno, e ne usa il marchio, il presidente fa parte del Consiglio di amministrazione. Presentano l’accordo come un importante apporto manageriale.

Poiché l’agricoltura è poco redditizia, è ripresa l’emigrazione che il governo aveva incentivato dopo il terremoto, regalando biglietti di sola andata e passaporti: ogni partenza era un problema in meno. Le mete sono la Germania, Settimo Torinese e Milano.

Gli universitari non s’iscrivono più a Palermo ma preferiscono gli atenei del Nord perché più qualificati e perché è più facile trovare lavoro. Molti giovani sono emigrati per fare i bidelli e i postini.

Gibellina è scesa a 4075 abitanti. Prima del terremoto sfiorava i settemila. Nel 1991 ne aveva poco più di cinquemila. Il decremento demografico è il segno della crisi delle aspettative.

Il comune ha 24 dipendenti e 40 precari. Nelle istituzioni culturali lavorano dieci persone.

Dallo spopolamento deriva una altro paradosso: dopo anni di battaglie per la ricostruzione molte case, che i genitori avevano comprate o costruite per i figli, sono vuote.

Il giovane assessore alla Cultura Peppe Zummo incarna il modello ideale della città museo. Pittore astratto, ha l’aria dell’intellettuale cosmopolita, piercing a un orecchio, cerchietto da pirata nell’altro, occhiali, papillon, pancetta e una montagna di riccioli.

Chi è il suo barbiere?

“Edward mani di forbice.”

Conserva il colore locale nell’intercalare dialettale. Racconta delle manifestazioni al Cretto di Alberto Burri, della suggestione della fiammelle accese nel buio, dello spettacolo con la figlia di Claudia Cardinale: “Sembrava un quadro di De Chirico.”

Il suo sogno è di far diventare il Cretto patrimonio dell’Unesco.

Il maestro dell’Arte povera fece ricoprire le macerie di Gibellina con un manto di cemento bianco, in cui dei solchi s’intrecciavano ripetendo la trama delle vie e delle viuzze, nell’intento di creare un sacrario della memoria sottratto al fluire del tempo, luogo di pellegrinaggi, di riconciliazione con il passato e di ricomposizione dei traumi della memoria.

Di recente l’opera è stata completata, il bianco accecante della parte nuova contrasta con il grigio fumo dell’altra, insidiata da muffa, erbacce e cespugli. L’ispirazione di Burri non ha fatto i conti con l’invadenza della natura e l’incuria dell’uomo.

A pochi chilometri da qui i ruderi spettrali di Poggioreale dove il tempo si è fermato alla notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968. L’abbeveratoio è tra le poche cose rimaste intatte, da uno dei due cannoli scorre ancora un filo d’acqua, indifferente alle distruzioni intorno. Qui vengono i vigili del fuoco a svolgere esercitazioni.

“Noi del Belice abbiamo fatto da cavia, – dice il giornalista Vincenzo Di Stefano – allora non c’era protezione civile, lo Stato era completamente impreparato. I soccorsi arrivarono con ritardo anche perché le strade erano impraticabili.”

Qui ammettono sprechi, ruberie, ritardi, ma si ribellano quando si fa il paragone con la rapidità con cui avvenne la ricostruzione nel Friuli e ti sbandierano le cifre: qui sono arrivati 3500 miliardi, lì ne stanziarono 18 mila miliardi.

Il terremoto provocò uno straordinario incrocio di destini. Il Belice era stato scelto dal sociologo Danilo Dolci, triestino trasferitosi in Sicilia, e da Lorenzo Barbera come terreno di lotta e riscatto sociale, che partissero dalla consapevolezza dei problemi concreti da risolvere. Le proposte dovevano essere elaborate dagli stessi abitanti e non calate dall’alto. Si discuteva di disoccupazione, lavoro, acqua, strade. Quando ci fu il terremoto avevano già pronto un lungo elenco di proposte che non furono prese in considerazione.

Barbera con i suoi ottant’anni custodisce la memoria di lunghi anni di lotte e disubbidienza civile per uscire dalle tende e poi dalle baracche, di ingiustizie, mafia, speculazioni edilizie e gravi inadempienze dello Stato.

In una manifestazione a Roma furono ricevuti da Pertini allora presidente della Camera. “Ci fece incontrare i ministri: presero impegni che non rispettarono, per cui noi dichiarammo lo Stato fuorilegge.”

Innovativa fu la proposta di istituire il servizio civile per i militari di leva del Belice. Una marcia su Palermo fu bloccata ad un bivio dai carabinieri dell’allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Barbera fu arrestato e condotto a Trapani. Alla fine però la battaglia fu vinta.

Nel 1973 ha fondato il Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione. Si era formato alla fucina di Adriano Olivetti: con Goffredo Fofi aveva avuto una borsa di studio per seguire a Roma un corso tenuto da maestri come Guido Calogero e Adriano Ossicini.

L’esperienza acquisita nel Belice l’ha utilizzata per i terremotati dell’Irpinia, dove è rimasto dodici anni.

L’ascesa alla collina verso il Baglio Di Stefano, sede della Fondazione Orestiadi, avviene sotto la suggestione della Montagna di sale di Mimmo Paladino da cui emergono in varie posizioni cavalli scuri, inquietanti come istinti primordiali.

Il presidente Calogero Pumilia, ex deputato democristiano, è alle prese con il bilancio: c’è da ripianare un debito di 1,6 milioni di euro nonostante i 255 milioni arrivati dalla Regione e i diecimila spettatori. Il personale è stato ridotto da otto a sette e si studiano altri tagli.

“Scongiurato lo spettro della chiusura sono moderatamente convinto che possiamo farcela a offrire ancora spettacoli di qualità.”

Una visita al contiguo Museo delle Trame mediterranee distoglie da problemi economici e da memorie tragiche. Qui più che altrove si rispecchia la personalità di Corrao: dai quadri della sua collezione ai cimeli portati da ogni dove, dalle installazioni alle macchine sceniche, dalle Bagnanti di Fausto Pirandello ai fiori di Filippo De Pisis, da un paesaggio di Rosai ai disegni di Guttuso.

Eravamo i soli visitatori, ma se non vengono la Fondazione li va a cercare soprattutto con mostre a Palermo.

Nel museo le macerie sembrano come l’origine lontana di una favola. Ma il sisma è interiore.

Vito Bonanno assicura che “non te lo scrolli mai di dosso, ti segue per tutta la vita.”COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA