Il filosofo Natoli «Lotta per l’ambiente e al terrore: due facce della stessa medaglia»

Di Giuseppe Di Fazio / 30 Novembre 2015

La crisi economica ed ecologica che viviamo e la paura del terrorismo ci costringono a vivere quasi appesi a un filo. Urge in noi una ripresa di coscienza sulla nostra vita e sul mondo che stiamo costruendo. Ma stare sul filo, appesi alle domande ultime esige coraggio e umiltà allo stesso tempo. Ecco perché finiamo per cercare «la via facile, la dimenticanza e la fuga», che spacciamo come bisogno di tornare alla normalità. Il filosofo siciliano Salvatore Natoli, ordinario di Filosofia teoretica all’Università statale di Milano Bicocca, autore di numerosi saggi di successo (tra cui “Il buon uso del mondo”, Mondadori 2010) prova a connettere – in questa conversazione con il nostro giornale – le recenti stragi con l’apertura della Conferenza sul clima a Parigi e ci spiega «perché attenzione ai poveri e attenzione all’ecologia devono camminare insieme». 

 

– “Una crisi – scriveva la filosofa Hannah Arendt – ci costringe a tornare alle domande”. Professor Natoli perché, dopo i fatti di Parigi del 13 novembre scorso, il nostro motivo più ricorrente è, invece, “tornare al bistrot”, o tornare in discoteca? 

«Ogni crisi genera domande, questo è un fatto ricorrente. Dinanzi alla crisi ci si chiede: perché? Da dove viene? Cosa abbiamo sbagliato? Le risposte vengono da una intelligenza riflessiva. Ma ci sono anche elementi choccanti e non tutti hanno la capacità di stare all’altezza delle domande. La domanda fa paura, la fuga diviene allora un modo per allontanare il problema, per aggirarlo, per ritornare nell’indifferenza di prima.  Oppure, si dice, per tornare a fare quello che abitualmente si faceva perché noi non vogliamo lasciarci intimorire dal terrorismo. Per un certo verso questo è giusto, si tratta di una saggia ripresa della routine, ma che va intrecciata con la domanda. Questo spesso non succede perché cerchiamo la via facile, cercando il più presto possibile di dimenticare. Però questo resta come inquietudine nascosta, resta come sottofondo, resta come rimosso e agita la coscienza delle persone». 

 

– I terroristi che hanno colpito a Parigi non sono estranei alla nostra cultura e alle nostre società. Anzi, c’è chi – come l’orientalista Olivier Roy – sostiene che essi siano figli del nichilismo. E’ d’accordo? 

«Il sistema delle cause che ha portato questi giovani al jihadismo è polivalente. In primo luogo c’è una ragione sociale: questi giovani sono cresciuti ai margini delle nostre società, non sono stati integrati. Anche dal punto di vista urbanistico non c’è stata una fusione della città. In tutte le città del mondo abbiamo ghetti. Non c’è stata una fusione di stili di vita. Abbiamo creato ghetti. E questo non è un fenomeno solo francese: pensiamo, per esempio, a Little Italy negli Usa. In Francia, le periferie sono spesso ghetti. Chi è cresciuto al margine della società non si sente dentro. Alcuni, dalle periferie, sono arrivati al centro, altri no, hanno patito una delusione. Chi vive sulla soglia sente il rifiuto, avverte una delusione, e elabora il sentimento di valere nulla. In questo contesto, alcuni maghrebini di seconda o terza generazione riprendono la vecchia tradizione come elemento identitario. Oppure visto che non conto nulla distruggo tutto, annullo tutto. Ma questo è un falso coraggio. Diceva Aristotele: il temerario spesso non è il coraggioso, ma è colui che cerca la morte perché ha perso il senso della vita. Se non conto nulla annullo tutto». 

 

– La radicalizzazione islamista dei giovani maghrebini di seconda e terza generazione deriva anche da un insuccesso del modello di integrazione francese, che estromette dallo spazio pubblico le esperienze religiose. Possiamo, su questo punto, non dirci francesi? 

«“Siamo tutti francesi”: la metodologia dello slogan è antica, la usò John Kennedy quando per esprimere la propria solidarietà al popolo di Berlino disse: “Io sono berlinese”. Ci si identifica con la vittima per solidarietà. Dall’altro lato dire “Siamo tutti francesi” vuol dire vogliamo difendere gli ideali di tolleranza e libertà. Difendere il nostro stile di vita come rivendicazione di libertà è giusto. Ma è giusto il nostro stile di vita? Nessuno può impormi il suo stile di vita. Ma il mio è buono? Oppure ci sono elementi che nuocciono a me stesso? ».

 

– Julia Kristeva chiama in causa l’atteggiamento dell’Illuminismo, che si è costruito in contrapposizione alla religione. C’è forse da ripensare il rapporto fra ragione e fede? 

«Io userei con molta prudenza il termine Illuminismo. L’Illuminismo è stato quel movimento culturale che ha posto in essere la tolleranza, cioè ha permesso che tutti potessimo professare una religione. Ma tolleranza non vuol dire che la religione diventa un fatto privato. Ognuna delle credenze presenti nella società deve poter presentare nello spazio pubblico la propria proposta di vita. Perché le religioni, da un punto di vista storico sono proposte di forme di vita, sono interrogazioni sull’esistenza, sul destino dell’uomo, toccano le radici profonde. È giusto perciò che io possa presentare la mia proposta di vita in libertà e avviare un discorso pubblico. Se la religione diventa fatto privato che non ha questa presenza, direi che cessa di essere religione. Fatto salvo che nessuno presuma di essere tutto, perché allora lo Stato è chiamato a intervenire per garantire la libertà di tutti. Le religioni, viste da un laico, sono portati sapienziali che emergono da lunghe esperienze storiche, con produzione di simboli, e di opere artistiche, che non possono essere ridotti ad arredi sociali». 

 

– Le risposte al terrorismo jihadista stanno incrementando l’avversione contro i migranti. L’Europa torna a ragionare in termini di chiusura di frontiere e di respingimenti. Che sta succedendo? 

«E’ un riflesso condizionato, un tic, non un fatto razionale. Abbiamo bisogno di creare il capro espiatorio, di concentrare la matrice del male in qualcuno per esonerarci dall’analisi sulla genesi dei mali e dalle responsabilità. Il migrante di oggi – per dirla con Manzoni – è l’erede dell’untore». 

 

– Chi ha seguito i fatti di Parigi dal comodo salotto di casa oggi grida: “Ma Dio dov’era quando quegli innocenti venivano assassinati? ”. Chi invece ha vissuto la tragedia dall’interno, come l’ostaggio del Bataclan, Sébastien, uscito vivo dalla tragedia, dice: “Ogni istante che passo coi miei parenti è un bonus, una benedizione. I semplici momenti di una vita fanno parte delle cose più belle che possiamo avere, e di questo non ci rendiamo conto se non quando ci capitano quelle sorti di elettrochoc come quello che ho vissuto”. Come si spiega questa differenza di reazione? 

«In qualsiasi esperienza traumatica le direzioni sono due: o ne muori, o te ne fai una ragione, riesci a capire cosa quell’evento ti ha rivelato. Questo non vuol dire che quello che hai perduto non l’hai perduto. Pensiamo alla riflessione di Primo Levi, quando distingue i sommersi e i salvati. Quando gli ebrei escono dal campo di concentramento non sono contenti. Si sentono colpevoli, perché non si sono salvati i migliori. Questo non vuol dire che da quell’esperienza non hai capito l’orrore, ma che l’orrore resta e deve restare. L’uomo non può evitare di fare i conti con il male». 

 

– Oggi si apre ufficialmente a Parigi il vertice mondiale sul clima. Il Papa, e nell’enciclica “Laudato si’ “ e nei suoi discorsi pubblici di questi giorni in Africa, insiste nel sottolineare che “l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme”, perciò l’attenzione all’ecologia e l’attenzione ai poveri devono camminare all’unisono. Quale indicazione può venire dalla prospettiva aperta dal Papa per il vertice mondiale sul clima di Parigi? 

«Parto con l’osservazione di un biblista, Piero Stefani. Egli riporta un testo di Bertolt Brecht che recita così: “Che tempi sono questi/ quando discorrere degli alberi è quasi un delitto / perché su troppe stragi comporta il silenzio? ». Come si fa a parlare di alberi quando ci sono le stragi? Il biblista continua: “Che tempi sono questi che bisogna discorrere della strage degli alberi per parlare dei delitti”? La strage degli alberi copre i delitti. Oggi la distruzione dell’ambiente è distruzione a cui nessuno si può sottrarre ed è questa la ragione per cui il Papa parla a tutti. Il suo è un discorso sulla possibilità di sopravvivere su questa terra e nessuno ne è fuori. Non tutti hanno le medesime sorti. Quelli che la patiscono di più sono i più interessati a uscirne. Ecco perché la salvezza viene dai poveri: patendo di più il male, sono più motivati per contrastarlo».

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