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Il latino lingua morta? No, è la nostra cultura

Di Sergio Sciacca |

In effetti il latino oggi non lo parla più nessuno per averlo appreso dalle labbra materne: tutti lo imparano dai professori, o dai maestri o dai libri. Il latino non è la lingua materna di nessuno. Ma questo non significa che sia una lingua morta. Un esempio. L’arabo classico (quello del VII secolo) nessuno, oggi, lo parla per averlo imparato dalle labbra materne, ma solo per averlo studiato a scuola insegnato da maestri e professori. Ma nessuno osa dire che l’arabo classico – quello che si usa nei giornali e nei libri, sia lingua “morta”. E gli egiziani o i tunisini che parlano? Parlano la lingua “popolare” (dàrgia) che imparano da genitori e nonni, dai compagni di gioco e che comincia a spesseggiare nei fumetti. Nei film normalmente si parla la lingua popolare. Ma nelle occasioni ufficiali si parla rigorosamente l’arabo classico poco discosto da quello usato ai tempi dell’Egira.

È cosa buona o sbagliata? È cosa pratica. La lingua araba classica è immutabile nelle sue strutture ed è uguale dalle rive dell’Atlantico alla penisola arabica. E’ una lingua elaborata da secoli di letterati e poeti al cui confronto le lingue popolari sono parziali e limitate. E’ una lingua di cultura. E’ stata tale anche la lingua latina che fino ai tempi del Foscolo era la lingua ufficiale dell’Impero Austriaco. Fino all’altro ieri era la lingua ufficiale anche della Chiesa Apostolica Romana per lo stesso motivo: contando milioni di fedeli delle più diverse loquele per non facilitare qualcuno si usava una lingua che non era materna per nessuno e che inoltre possiede (tuttora) un’enorme tradizione culturale.

Non è più comodo usare allo scopo l’inglese? No, perché quelli che hanno l’inglese come lingua materna sono enormemente avvantaggiati rispetto agli altri.

Ma c’è un altro motivo non pratico, ma culturale. La continuità. Oggi nel mondo arabo tutti riescono a leggere senza enormi difficoltà i libri filosofici di al Ghazali e i racconti delle Mille e una Notte che dunque fanno parte della cultura diffusa. In Cina e in Giappone (che hanno civiltà culturalmente altissime) si usa (oggi) una scrittura ideografica che per la sua complicazione possiamo paragonare ai geroglifici egiziani dei tempi faraonici. I ragazzini delle elementari devono imparare migliaia di segni e quando va bene impiegano otto anni di faticate. E quale è il vantaggio? La consapevolezza della continuità. Avvertono che i testi di Confucio o le poesie di Li Bai fanno parte della loro civiltà. Il Presidente Mao ha sfrondato la selva dei segni ideografici, ma non la ha abbattuta. E’ stata abbattuta invece nel Viet Nam (sotto l’occupazione francese): e oggi la cultura locale si è privata di una nobilissima tradizione. Lo stesso è avvenuto in Turchia dove Atatürk per decreto sostituì la scrittura araba con quella latina (la nostra). Conseguenza: alcuni professori di università (turche) non sanno leggere i libri stampati prima del 1900.

Dunque: il latino è la nostra cultura classica, che ha forgiato la civiltà europea. Conservare quelle tradizioni non è opera da imbalsamatori del passato, ma di consapevolezza storica.

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