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L’attualità (e l’assenza) di Leonardo Sciascia

Di Salvatore Scalia |

In tempi di pandemia da Covid 19, di restrizioni delle libertà individuali per forza di causa maggiore, di scienziati veri o fasulli che prediligono l’apparire all’essere, di oscurantisti nemici dei vaccini e della scienza ufficiale, e in quanto tale si presume al servizio del capitale, di complottisti, e dello scatenarsi di una violenza anonima e brutale soprattutto sulla Rete, ci siamo spesso chiesti da soli o con amici cosa ne avrebbe detto Leonardo Sciascia.

Forse ciò ci accade per un tic generazionale, di chi almeno per un ventennio era stato abituato ai pellegrinaggi di giornalisti e troupe televisive nella villetta di contrada Noce a Racalmuto per chiedere lumi allo scrittore, le cui parole sarebbero state punto di riferimento dell’opinione pubblica. Il suo spirito razionale e volterriano sapeva scandagliare i luoghi oscuri della coscienza, dissipare le ombre, mettere un filo d’ordine razionale nel caos.

Certamente avrebbe sofferto, lui, il maestro compassionevole delle Parrocchie di Regalpetra, per la didattica a distanza, per la chiusura delle scuole e delle università per paura dei contagi, per l’incapacità di organizzare e prevenire, per tutto ciò che implica un dato triste e inoppugnabile: la perdita in Italia del primato della cultura.

Il maestro di Racalmuto incarnava l’impegno civile dell’intellettuale, del grande moralista che si erge a giudice e coscienza della nazione. Il suo modello era l’Emile Zola del caso Dreyfus, lo scrittore francese che nel 1898 aveva levato il suo j’accuse contro i persecutori dell’ufficiale ebreo.

Abituato a misurarsi con streghe e caccia alle streghe, Sciascia, a sua volta, nel caso Tortora seppe vedere con lucidità la mostruosa macchina giudiziaria, fondata sulla falsità e l’improvvisazione, che era stata montata dai giudici per stritolare un innocente.

Lo scrittore aveva il coraggio, il tormento, e i dubbi, di chi sa andare contro corrente, sfidare i luoghi comuni, smascherare cecità e pregiudizi.

Della sua voce e della sua autorevolezza avremmo avuto bisogno in casi di violenza di organi dello Stato contro cittadini inermi come Stefano Cucchi, o come, oggi, nel caso dell’assassinio in Egitto di Giulio Regeni, in cui confliggono Ragion di Stato e Diritto.

La sua eredità ha certamente continuato a operare nelle coscienze, ma senza avere più lo stesso rilievo pubblico né suscitare lo stesso rispetto reverenziale, che non risparmiava nemmeno il cinismo dei politici.

A suo modo Sciascia fu una figura tragica che si misurava con la tragicità dei tempi in cui ha vissuto, culminati con la strage brigatista di via Fani e l’assassinio di Moro. Tempi di blocchi politici, economici, ideologici, che sembravano immutabili. Nella società fluida seguita alla sua morte non c’è più posto per i grandi moralisti tormentati dal dubbio, per il ragionamento sofisticato, per i tentativi di andare oltre le apparenze. A meno che non si vogliano scambiare, con un errore comico oltre che grossolano, per suoi eredi coloro che sbraitano e inveiscono, o che fanno i profeti di professione.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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