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Mercanti e poeti le due anime di Capo d'Orlando

Mercanti e poeti, le due anime di Capo d’Orlando

Viaggio nei luoghi dell'immaginario siciliano: la cittadina è nata due volte: la prima con l'autonomia comunale da Naso nel 1925, la seconda nel 1954 quando divenne capitale dell'immaginario FOTO

Di Salvatore Scalia |

Capo d’Orlando è nata due volte: la prima con l’autonomia comunale da Naso nel 1925, la seconda nel 1954 quando divenne capitale dell’immaginario, avendo Eugenio Montale ricevuto in una busta male affrancata un volumetto con nove liriche dell’esordiente Lucio Piccolo di Calanovella, di 53 anni. Quell’anno due aristocratici cugini, il poeta e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si recarono al convegno di poesia di San Pellegrino, dove destarono curiosità per l’immensa cultura e l’eleganza raffinata d’altri tempi. Da allora gli eventi si susseguirono. Mondadori pubblicò le poesie di Piccolo consacrato da Montale: “Il suono di corno che ci giunge dal Capo d’Orlando non è l’Olifante di un sopravvissuto, ma una voce che ognuno può sentire echeggiare dentro di sé.” Nel 1958 apparve postumo da Feltrinelli il romanzo di Lampedusa Il Gattopardo, scritto in gran parte nella villa in cui i cugini Casimiro, Agata Giovanna e Lucio si erano ritirati nel 1932 con la madre Teresa Tasca Filangieri di Cutò.

Due nascite significa anche due anime che è arduo conciliare: la prima commerciale, intraprendente, volta al profitto e al futuro come investimento produttivo; l’altra ripiegata su sé stessa, persa dietro la contemplazione dei millenni, del corso degli astri, dello sfiorire dei grandi destini e del declino inarrestabile di una classe sociale, l’aristocrazia.

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L’una attenta alla roba, al guadagno, capace di controllare persino la paura inserendola in un conteggio del dare e avere; l’altra assediata da un universo di ombre e fantasmi, di sussulti dell’anima, impotente ad arrestare i cambiamenti e la dissipazione di un immenso patrimonio.

Mobile universo di folate

di raggi, d’ore senza colore, di perenni

transiti, di sfarzo

di nubi: un attimo, ed ecco mutate

splendon le forme, ondeggian millenni.

L’unica vera eredità fu arte e memoria, patrimonio che non ha prezzo.

L’anima mercantile è legata alla posizione geografica sul mare come sbocco dei prodotti dei Nebrodi, alla fertilità del territorio e al clima, elementi da cui deriva la mentalità aperta e dinamica di una comunità nuova con poche incrostazioni del passato. Perciò Capo d’Orlando è potuta divenire un modello, il primo, di reazione alla violenza e alla sopraffazione della mafia scesa da Tortorici. Qui nacque nel 1990 l’Associazione commercianti e imprenditori orlandini, il cui presidente fu Tano Grasso, giovane laureato in filosofia e figlio di un negoziante di scarpe, divenuto deputato Pds nel 1992. L’Acio aveva tra i suoi scopi di “promuovere ed attuare iniziative che tendano alla difesa e all’assistenza morale dei soci.”

Gli orlandini avevano conosciuto l’emigrazione prima in Australia, a Fremantle se ne contano settemila, poi nel secondo dopoguerra in America latina e Nord Europa; avevano vissuto con le rimesse degli emigrati, strappato al mare e alla terra il loro benessere, e non potevano accettare di pagare il pizzo, di subire una sopraffazione e vivere nella sottomissione. Denunciare uniti i mafiosi fu giudicato più conveniente che cedere disuniti e impauriti.

“I commercianti – sostiene Antonino Messina che fu sindaco in quegli anni – si ribellarono perché non volevano che fosse sottratto niente di quanto avevano conquistato con il sudore della fronte. Toccateci tutto tranne le tasche. Può definirci levantini.”

Messina, che era democristiano della sinistra di base, ricorda gli attentati, le intimidazioni, la nascita del commissariato di polizia, il potenziamento della caserma dei carabinieri, la presenza dei soldati, la costituzione del Comune come parte civile: “Non potevamo lasciare soli i nostri concittadini.”

Non mancarono le resistenze di chi non accettava il marchio di città mafiosa, e di chi non tollerava i controlli asfissianti delle forze dell’ordine. A far tacere le rimostranze furono tre omicidi.

Ventisei anni dopo si respira l’aria malinconica dei reduci. Tano Grasso fa il consulente antimafia in Campania, mentre l’imprenditore Sarino Damiano, proprietario di un complesso turistico nella frazione marina di San Gregorio, sembra inchiodato al ruolo del testimone di giustizia. I soci si sono ridotti a 30, l’associazione ha problemi di bilancio, e i contributi della Regione tardano. Il presidente dell’Acio Enzo Mammana, con un passato da cantante, non nasconde i malumori; con Cuffaro e Lombardo tutto filava liscio e ora con Crocetta…

“Ormai a fare la denuncia accompagniamo una o due persone l’anno, quanto basta a giustificare l’esistenza dell’Associazione. L’ultimo è stato un farmacista. Gli avevano chiesto il pizzo dicendogli: mi manda Santapaola. Denunciare conviene sempre anche per l’intervento dello Stato in caso di danni.”

Sarino ha un sorriso mite, è un bravo cuoco, ha voglia di parlare d’altro, magari di cucina. Le sue vicissitudini sono state ricostruite nelle aule dei tribunali, raccontate da giornali e televisioni, analizzate in libri e tesi di laurea. Due episodi però premono sempre alla memoria: la minaccia sulla soglia dell’albergo, “ti ricorderai dei Bontempo Scavo”, e il discorso di un soldato a cui aveva dato un passaggio in auto per la stazione.

“Non sapendo chi fossi, mi raccontò che faceva la guardia all’albergo di un imprenditore ma era convinto che se la mafia avesse voluto l’avrebbe ucciso lo stesso.”

Sarino preferisce divagare, rievocare il piccolo borgo che era una volta San Gregorio, o parlare di pesca, di pescatori avventurosi e ingegnosi che hanno fatto fortuna in Australia, delle navi che venivano a caricare da Genova e da Napoli, della coltivazione del baco da seta, della bisnonna Genoveffa che era donna di polso e di potere, avida e generosa con chi nulla aveva. Sovrintendeva a un’attività di salagione delle acciughe, commerciava in tutto, governava una famiglia numerosa e si faceva rispettare non esitando ad alzare le mani sia a maschi che a femmine.

Un pittore ne ha colto l’animo nello sguardo furbo e grifagno. Vincenzo Consolo ne ha lasciato un ritratto in un ricordo di Lucio Piccolo. Lo scrittore e il poeta si erano recati a San Gregorio. “Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aromatici.”

Sulle lotte per l’autonomia gli orlandini hanno sviluppato una mitologia identitaria. Alla Società di mutuo soccorso, nata nel 1908, ogni socio ha un aneddoto da raccontare o un particolare da aggiungere soprattutto alla contesa sul seppellimento dei morti. Mancando il cimitero, i defunti si dovevano portare a Naso, in collina, a 13 chilometri di distanza. Durò finché per la prima volta i parenti di un morto non rubarono il cadavere e lo tumularono a Capo d’Orlando. Fecero la guardia alla tomba per giorni, c’è chi dice per tre mesi.

L’autonomia, racconta l’avvocato Pippo Antillo presidente della Società di muto soccorso ed ex sindaco socialdemocratico, partì da queste stanze, qui, in particolare i commercianti, si elaborarono strategie e documenti. Naso, patria del deputato comunista Francesco Lo Sardo, era considerata la roccaforte del socialismo, e fu per questo che il regime di Mussolini favorì la nascita del nuovo comune promossa da ex socialisti convertiti al fascismo. A celebrare l’evento intervenne, sbarcando da un idrovolante, il ministro dei Lavori pubblici Giovanni Giuriati.

Se chiedi all’avvocato Antillo di Lucio Piccolo, risponde che è un grande ma non ha ricordi personali, perché il poeta viveva appartato. Tanti invece ricordano Tano Cuva, scrittore, giornalista, imprenditore, ideatore di beffe memorabili, nottambulo, il creatore del night club La Tartaruga a San Gregorio, dove passarono i più grandi cantanti da Modugno a Gino Paoli, che su quella spiaggia, ora erosa dalle onde, trasse ispirazione per Sapore di sale sapore di mare, successo del 1963.

Per cogliere l’anima levantina basta guardare il panorama da Villa Piccolo, alta su una collina. Dove erano limoneti, dove la natura esultava rigogliosa, ora domina il cemento. È il segno di una mutazione che da comune agricolo ha trasformato Capo d’Orlando in importante centro turistico.

L’edilizia, talvolta abusiva, ha assecondato questo sviluppo. Si contano duemila posti letto e molte ville per le vacanze. In estate la popolazione dai 14 mila residenti passa a venticinquemila. Qui i prezzi delle case hanno un valore del 30 per cento in più rispetto ai paesi limitrofi. La città è in continua espansione demografica, assorbendo dai centri di montagna cittadini che bilanciano l’emigrazione soprattutto intellettuale. Il commercio e, da una decina d’anni, il turismo attutiscono gli effetti della crisi economica nazionale, e soprattutto compensano la grave perdita dell’oro verde, la coltivazione dei limoni, di cui un tempo si esportavano duemila vagoni l’anno.

Il sindaco Enzo Sindoni, imprenditore nato in Venezuela, governa da vent’anni. Ha avuto problemi con la giustizia da cui è uscito indenne, ed ha suscitato clamore per avere picconato nel 2008, in un soprassalto di malumori borbonici, la targa di piazza Garibaldi, perché il padre del Risorgimento fu un “feroce assassino.” Parla del porto in via di completamento, esibisce il più assoluto disprezzo del governo regionale “fatto di incompetenti”, enumera con orgoglio i privilegi di cui godono gli orlandini, dalle tasse non aumentate, nonostante la crisi, ai computer gratis per i ragazzi che escono dalla scuola media. “Qui – dice – s’inventa il lavoro. Non sembra di essere in Sicilia, siamo lontani dai soliti stereotipi.”

Il comune però ha 51 dipendenti e cento precari part time. E non tutti condividono l’immagine dell’isola felice dove si dorme con le porte aperte.

“Questo – commenta Antonino Messina – è un paradiso abitato da diavoli.”

La capitale dell’immaginario ha una schiera di appassionati cultori locali, ricercatori di aneddoti, documenti e testimonianze. Uno di questi è l’ingegnere idraulico Franco Valenti, che da giovane rimase fulminato da Lucio Piccolo durante un interminabile viaggio in treno da Palermo a Capo d’Orlando. Il poeta, che aveva un libro in francese intitolato Algèbre Abstraite, fece domande su entropia, fisica quantistica, gli propose che andasse a trovarlo alla villa dove si sarebbero ragguagliati a vicenda su poesia e scienza. Valenti non accolse l’invito. Ora da anni invece si dedica al poeta.

Cruciale nella saga dei fratelli Piccolo la decisione di lasciare un erede. Il compito toccò a Lucio, che era il più giovane. Accettò a patto che la donna fosse bella, giovane e che non la dovesse cercare lui. Alla ricerca parteciparono Lampedusa e vari campieri. Alla fine fu scelta una contadina di Ficarra. Nacquero il figlio e le liti. Lucio morì nel 1969, i fratelli lasciarono i loro beni a una Fondazione che avrebbe dovuto sostenersi con i proventi dei limoni, ma non potevano prevedere la crisi agrumicola.

La Fondazione è tornata alla ribalta per una di quelle notizie che solo la stupidità geniale della burocrazia riesce a inventare: il blocco della Regione di 179 mila euro a causa della differenza nei conteggi tra Palermo e Giardini Naxos di cinquanta centesimi nel bilancio della mostra sugli acquerelli di Casimiro Piccolo al Teatro greco di Taormina. Il risultato è che Villa Piccolo ha chiuso, cogliendo anche l’occasione per rivendicare i contribuiti, previsti dalla legge regionale del 1995, mancati o decurtati arbitrariamente negli anni passati. L’amministratore Carmelo Germanà, figlio di un dipendente dei Piccolo, ci mostra carte e conteggi, fa i paragoni tra chi ha ricevuto più del previsto e la Fondazione, lamentando la mancanza di santi in paradiso.

Certo è che Capo d’Orlando senza Villa Piccolo e i suoi spettacoli estivi non ha altre attrazioni culturali da offrire al turismo colto. “Nell’attesa della soluzione, noi stiamo lavorando”, assicura il consigliere d’amministrazione Alberto Samonà.

Villa Piccolo, al di là di ogni umana contingenza, induce a un’estatica contemplazione. Tutto resta sorprendente: il cimitero di cani e gatti, i vialetti, gli alberi e i sentieri che s’inerpicano su per la collina, le piante esotiche importate, come la puya delle Ande, da Agata Giovanna, e a pianterreno gli acquerelli ben ordinati di Casimiro. Maghi, elfi, figure fantastiche e fiabesche allontanano dalla realtà per invitarci a guardarla con distacco e ironia, per cogliere con occhi incantati un mondo altro, evanescente, infinitesimo e impalpabile.

Al piano di sopra trovi la casa com’era e la realtà cogente, deludente di quella lettera inviata da Lucio Piccolo a Basilio Reale:

“29 gennaio ’57 da Vina di Capo d’Orlando.

La prego se le riesce possibile informarsi nel modo più privato e riservato (con leggerezza di tono cioè) su quel che abbiano detto i diversi lettori del comitato di lettura intorno al dattiloscritto Il Gattopardo di mio cugino Tomasi di Lampedusa che tempo addietro io mandai alla Mondadori…”

La casa editrice rifiutò il romanzo, l’autore morì nel 1957 senza assaporare, come Lucio, alcun riconoscimento alla sua grandezza.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA