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Palma Montechiaro in viaggio tra i gattopardi i santi e le iene

Palma Montechiaro in viaggio tra i gattopardi i santi e le iene

La crisi economica ha fiaccato una città già povera di risorse. Ogni sogno di benessere è legato al turismo, ma non si riesce a creare un forte richiamo attraverso lettere, monumenti e spiagge  FOTO

Di Salvatore Scalia |

“Che sorvegliate?” Chiede un uomo anziano con baffi e occhiali cerchiati d’oro, che fuma davanti all’ingresso del Circolo Tre Palme in via Roma a Palma di Montechiaro. Che sia lapsus o uso improprio di un verbo, nel paese del Gattopardo due forestieri curiosi e una macchina fotografica fanno scattare un riflesso condizionato. Lo tranquillizziamo: vogliamo raccontare una delle capitali dell’immaginario siciliano, la Donnafugata del romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ultimo erede dei duchi di Palma.

Sorride cordiale. “Bellissimo libro, hanno girato anche un film, ma qui non funziona niente.” Indica la sala affollata di giocatori di carte e sospira che non c’è altro da fare. Ex camionista, dice di chiamarsi Vincenzo Mangiavillani, emigrato in Germania è tornato ma i figli sono rimasti là.

La trasfigurazione letteraria di Palma in Donnafugata è uno dei luoghi immaginari più frequentati da quando, nel 1958, fu pubblicato postumo Il Gattopardo. Le vaghe nozioni di chi non legge derivano dal film che nel 1963 ne trasse Luchino Visconti, con attori come l’americano Burt Lancaster, il principe di Salina, il francese Alain Delon, Tancredi, e gli italiani Paolo Stoppa, don Calogero Sedàra, e Claudia Cardinale, un’Angelica raggiante di bellezza e sensualità.

Giuseppe Tomasi viveva a Palermo dove la famiglia si era trasferita nella seconda metà del Settecento. La prima visita al paese e nei feudi degli avi la fece nel 1955. Tornò poche volte prima di morire nel 1957. Gli tributarono l’accoglienza con banda, il Te Deum nella Chiesa Madre e il privilegio, condiviso dagli antenato con il re di Napoli, di varcare la soglia proibita del convento di clausura delle benedettine, che gli offrirono la loro specialità, il mandorlato riccio, di cui facevano e fanno commercio. Raccontò l’esperienza nel romanzo attribuendola a don Fabrizio.

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Ora il sindaco Pasquale Amato immagina il giorno in cui si sforneranno milioni e miliardi di biscotti, con su inciso l’animale araldico, per invadere i mercati e dare l’illusione di assaporare un momento da Gattopardi. Loda le mandorle locali che hanno il pregio di essere oleose e perciò mantengono il biscotto croccante per un mese. Ne enumera i tipi: caluriedda, rumana, pulla, viddana…

“Ma quali mandorle! Le importiamo da Avola!” Sentenzia il maestro Domizio Mineo.

Fu Carlo, il primo duca di Palma, a ottenere nel 1637 la licentia populandi. L’ambizione di inserirsi nella grande aristocrazia della monarchia spagnola fu perseguita attraverso la cultura, l’architettura, lo studio e la scienza. Da Ragusa fu chiamato don Giovanni Battista Odierna, studioso di astronomia, seguace di Galileo “il precursor di cotanto secolo,” botanico e biologo, collaborò al disegno urbanistico della città. Da Palermo giunse il Cangiamila, autore di Embriologia sacra, un rivoluzionario trattato sulla ginecologia. Fattosi monaco, Carlo lasciò il ducato al fratello Giulio che sposò la ricchissima Rosalia Traina. In casa si viveva da asceti. Le quattro figlie si fecero monache, ottenendo che il primo palazzo ducale divenisse un monastero. Isabella, suor Maria Crocifissa, fu la Beata Corbèra. La mistica, citata nel Gattopardo, sostenne lotte titaniche contro le tentazioni del demonio che, irritato dagli insuccessi, le scagliò un sasso, custodito nella chiesa del convento. La monaca si macerava anima e corpo con rinunce, preghiere e cilici. Con una lettera tentò di convertire Satana che invece s’impadronì della sua mano, costringendola a scrivere in caratteri indecifrabili, in cui si tramanda sia riaffermata l’ineluttabilità del male. Anche Giulio, detto il duca Santo, col permesso del Papa si fece monaco mentre la moglie Rosalia si chiuse in  convento con il nome di suor Maria Seppellita. Uno dei figli maschi Giuseppe Maria è stato proclamato santo nel 1986. “Le sue tesi sulla messa in volgare – racconta con orgoglio Salvatore Tannarella – furono al centro del Concilio Vaticano II. Ha compiuto un miracolo a Torremuzza.”

La storia edificante della famiglia irrita invece il libero pensatore Carlo Sortino, sindaco socialista dal 1979 al 1982, presidente del Circolo culturale Odierna e scrittore.

“Vivevano più in cielo che in terra, convinti che la vita fosse un purgatorio per espiare il peccato originale. Hanno sperperato il denaro in palazzi, chiese, conventi e reliquie, lasciando il paese povero in canna. La Beata Corbèra era una masochista isterica e repressa.”

Secondo Sortino, Palma sconta le sue origini: fu popolata da galeotti fatti venire dagli Iblei.

“A Naro c’era un detto: quannu arrivunu i palmisi, mi trasu finu lu scifu du porcu.”

L’ex sindaco democristiano Piero Meli, letterato e saggista, rimpiange invece che le figlie del duca non si siano maritate per dare vita a un embrione di quella classe borghese, tra aristocrazia e braccianti, che è mancata per secoli. Nel 1792 il conte di Stolberg e Jacobi si stupirono che esistesse un solo mercante.

La crisi economica ha fiaccato una città già povera di risorse: dei circa ventitremila e cinquecento abitanti più di ottomila lavorano al Nord Italia o all’estero, storicamente si emigra in Germania e Argentina. Ogni sogno di benessere è legato al turismo, ma non si riesce a creare un forte richiamo attraverso il legame di mito letterario, monumenti e spiagge.

Si è fatto un tentativo con le cittadinanze onorarie, con banda, fuochi d’artificio e sfilata in carrozza: la prima, poco tempo prima che morisse, a Isabella Crescimanno di Capodarso ultima dei Gattopardi, di quel ramo della famiglia che lo scrittore volle escludere dall’eredità adottando un estraneo come Gioacchino Lanza. La seconda è stata Costanza Afan de Rivera nelle cui vene scorre il sangue della dinastia imprenditoriale dei Florio, dei quali Ignazio, come annota nel suo diario Tina Whitaker, avrebbe avuto una relazione con Beatrice, madre dello scrittore, nella Palermo della Belle époque.

“Spettacoli deprimenti!” commenta Sortino, che considera sopravvalutato anche il romanzo.

Tuttavia la consigliera comunale d’opposizione Letizia Pace, biologa, pensa che far venire Claudia Cardinale sarebbe un evento mondano e culturale dai benefici effetti.

Una risorsa potrebbe rivelarsi il turismo religioso, sfruttando i tesori esistenti e i lasciti spirituali: la beata Corbèra, il santo, la Chiesa Madre, capolavoro del barocco la cui facciata si deve ad Angelo Italia lo stesso architetto della cattedrale di Noto, i quadri in essa custoditi di Domenico Provenzani, il municipio che fu convento degli scolopi e importante centro culturale, e 140 reliquie. In un documento esposto nella chiesa del convento sono elencate le più importanti: due pezzetti della Santa Croce, una scheggia della colonna in cui Cristo fu flagellato, un filo di paglia del presepe, un brandello del velo della Madonna. Sono tutte testimonianze di una fede così intensa da rendere ciechi anche davanti all’impostura.

Palma, che ha un castello sul mare, fu progettata come una nuova Gerusalemme, rispettando gli orientamenti e le distanze dei luoghi sacri. La Via Crucis conta diciotto stazioni. Restando a casa si poteva fare un viaggio immaginario in Terra Santa.

Dei palmesi, finora l’unico che ha tratto notorietà e profitto dal Gattopardo è stato il defunto medico Andrea Vitello; impiegò una vita a raccogliere informazioni e documenti sullo scrittore, di cui fu biografo insuperabile ma pessimo interprete quando lo volle stendere sul lettino dello psicanalista per dimostrarne l’impotenza, con l’insistenza pettegola di una rivalsa sociale.

Il resto è storia di frustrazioni. Piero Meli da seminarista si ebbe la sua. Nel 1960 Ugo Gregoretti, venuto per girare un documentario, volle ricostruire l’ingresso di Giuseppe Tomasi nella Chiesa Madre. A intonare il Te Deum invitò il coro del seminario di Favara. La voce di Meli, essendo soprano, sovrastava le altre. “Lei no,” e il regista lo escluse.

Anche Visconti per la scena del ballo scartò il Palazzo Ducale, troppo spoglio e austero, preferendogli palazzo Gangi a Palermo.

Non esiste più il palazzo con l’ orto di Odierna. Si attese che l’edificio si deteriorasse fino a quando una delibera del comune ne ordinò la demolizione. Al suo posto è sorto un palazzaccio, che conserva l’antico portale con a destra la lapide commemorativa dello scienziato e a sinistra due distributori automatici di preservativi.

Il Gattopardo, con la problematica del trasformismo e della delusione del Risorgimento, ha attirato sì l’attenzione ma sull’immobilismo storico e sulla mafia, rendendo Palma esempio negativo del sottosviluppo siciliano. Lampedusa scriveva del 1860 ma pensava a un secolo dopo, quando a Donnafugata fa dire a don Fabrizio: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene…”

Nel 1960 Danilo Dolci gridò alla scandalo per il degrado sociale e sanitario di Palma, organizzando un convegno a cui parteciparono Sciascia, Carlo Levi e l’allora dirigente del Pci Napolitano, che denunciò la vergogna in cui l’Italia abbandonava le periferie.

Uno dei personaggi più popolari di quegli anni di miseria è la signora Adelina: vendeva baccalà, cibo dei poveri. Era materna e ancora oggi tutti la ricordano, non solo a Palma ma anche a Licata e a Canicattì, come abbiamo potuto constatare dagli abbracci che sommergono Filippo Bellia, decano dei giornalisti agrigentini, ogni volta che scoprono chi era sua madre.

Degrado e illegalità diffusa si colgono anche nei numeri: su 14 mila famiglie i contatori dell’acqua installati sono 7,500. Far pagare gli stalli al mercato è stato arduo, così come convincere gli automobilisti  a non parcheggiare sul bagnasciuga. L’abusivismo edilizio è una piaga: sono undicimila le domande di sanatoria  e gravi i ritardi del Comune nell’espletamento delle pratiche. “Si è scoperto – racconta il sindaco – che due mafiosi poi uccisi, Priolo e Condello, praticavano forti sconti facendo inserire negli incartamenti falsi bollettini di pagamento. Qui è difficile far capire che si deve avere fiducia nello Stato. Sono arrivato alla disperazione.”

Il Comune ha 121 impiegati e 42 precari. L’agricoltura occupa il 23 per cento della forza lavoro, la coltivazione del melone cantalupo dà i maggiori profitti. Sono circa trecento le famiglie indigenti e 275 i residenti rumeni. Si sopravvive grazie alle pensioni, ai sussidi e alle rimesse degli emigrati. Il turismo? Ci sono solo 60 posti letto, il villaggio costruito a Marina di Palma con fondi statali è rimasto aperto solo per due anni.

“Si campa per morire,” commenta filosoficamente Totò Costanzino presidente della Pro Loco.

A Palma la paura genera ambiguità, diffidenza, sospetto e paranoia. Una giovane e bella signora ci confida che teme la mafia che non è mafia ma pur sempre mafia. Qui se prende a fuoco un altare laterale della Chiesa Madre nascono sospetti. C’è chi vede uomini d’onore dappertutto e chi no. Uno indica tre bar come ritrovi di mafiosi ma un altro li definisce innocui disoccupati che ammazzano solo il tempo. Per amor di patria ti spiegano che, senza denaro né appalti, cosa nostra si è trasferita al Nord e in Germania. Qui, minimizzano, resta solo manovalanza al servizio di palermitani e trapanesi, e non si rendono conto di parlare di feroci assassini. E pensi ai martiri come Livatino e ai carnefici.

Domizio Mineo ci ragguaglia sul paraccu: un assembramento di uomini d’onore che si mostrano in piazza in segno di forza e compattezza. C’è chi continua a vederlo e chi no. Paraccu è tipico di Palma, significa ombrello, sinonimo di cupola.

L’ultima vittima di mafia nel 2013 è stato il diciassettenne Antonio Morgana, finito con un simbolico colpo alla nuca. Fu difficile districarsi tra opposti sentimenti. Il sindaco Amato disse: i mafiosi ripetono di amare le mamme ma le fanno soffrire. Se muoiono le lasciano nel dolore, se finiscono in galera le costringono a lavare scale per pagare gli avvocati.

Una madre col marito in galera andò in municipio a ringraziarlo.

Delle tragedie quotidiane non si cura Angelo Santamaria, di 82 anni, guidatore di auto da noleggio in  pensione. La sua unica passione è recitare. Senza preamboli, seduti al tavolo di un ristorante, comincia solennemente: “To be or not to be… essere o non essere… soffrire, morire o dormire…”

Sordo alle nostre domande, s’interrompe solo per illustrare i precetti del bravo attore: “Gesto adatto alla parola, tono adatto all’atteggiamento.” Si compiace di sé stesso e commenta: “Non siamo i primi ma neanche gli ultimi.”

Passa da Amleto a Merola, “assù assù Gennarino è muorte”, al monologo di Giuda nel Mortorio di Filippo Orioles, che recitava il Venerdì Santo: “Perfino il melodioso canto di un uccello ti pare che gridi ai quattro venti la tua infamia… e tu pure madre incosciente perché non mi soffocasti nella culla?”

Una volta che crollò il palco, rischiò di rendere reale la finzione del suicidio di Giuda.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA