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Cassatelle e “minni di Vergine”: sono i dolci le vere tipicità di Sant'Agata a tavola

Ecco perché non esistono piatti tradizionali legati alla festa di Sant'Agata a parte queste leccornie

Carmen Greco

05 Febbraio 2025, 14:42

dolci_sant'agata

Una festa di strada che si vive per la strada. Ecco perché - spiegano gli storici della gastronomia - non esistono piatti particolari della festa di Sant’Agata. A parte le edizioni che combaciano con il Carnevale (quando la tradizione porta a tavola i maccheroni a “cinque puttusa” con il sugo di maiale) la festa di S. Agata è più un trionfo del dolce, dal torrone, alle olivette, alle micro cassate di ricotta ormai sdoganate come “minnuzze di Sant’Aita” che, in realtà si trovano tutto l’anno nelle pasticcerie catanesi.

Le vere “minnuzze”, in realtà, erano una sorta di panzerotti con un ripieno di frutta secca e mandorle. Poi c’erano le “minne” che si facevano nella Sicilia occidentale ed erano preparate con un ripieno di “zuccata” o di “biancomangiare”, sempre dentro un involucro di pastafrolla (nella foto piccola).

Sulla questione delle minni di Sant’Agata si potrebbe aprire una tenzone gastronomica stile arancin*, se è vero che le “minni di vergine” che si preparavano (e si preparano tutt’oggi nella Sicilia occidentale) possono vantare un riferimento storico, anzi letterario di primo livello. E sono le pagine del Gattopardo, nelle quali Don Fabrizio, il principe di Salina riferendosi alle «impudiche paste delle vergini» si chiede «Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci?».

Le “minni di vergine” sono legate alla Sambuca-Zabut del XVIII secolo. Ad invertarle fu una spiritosa suora, suor Virginia Casale di Rocca Menna del collegio di Maria che nel 1725, creò le “minne” su richiesta di Donna Francesca Reggio, divenuta Marchesa di Sambuca per aver sposato Don Giuseppe, in occasione delle nozze dell’unico figlio, Pietro. Se qualcuno, però, volesse accostare le “minni di virgini» alle “minnuzzi di Sant’Aita” cadrebbe in errore poiché, le prime sono ripiene di zuccata frammista a mandorle finemente tritate, ricoperte da zucchero a velo e sormontate da una ciliegina rossa sciroppata. Tutti dettagli da pasticceria ai quali - oggi - nel mondo velocissimo dei social che sfornano storie e ricette come se non ci fosse un domani, non fa caso più nessuno.

Sul fronte del “salato” la questione è ancora più vaga. Si può sicuramente risalire al successo della “ tavola calda”, ma anche qui senza alcuna specificità agatina, visto che è uno street food presente tutto l’anno.
L’unica strada per risalire alla tradizione gastronomica della festa di S. Agata, potrebbe viaggiare sul piano deduttivo. Possiamo immaginare che durante una festa che si distribuiva uniformemente dal primo al 5 febbraio (anzi al 6), i catanesi non avevano il tempo di stare in casa a cucinare. Così, durante queste giornate, a farla da padrone c’era il tipico cibo di strada.

In determinati angoli della città c’erano dei grandi bracieri - questi sì testimoniati dalle cronache - fatti allestire dagli amministratori del tempo dove i cittadini potevano arrostire le loro pietanze. Avere la possibilità di cucinare gratis (legno e carbone costavano e non tutti avevano un forno o una cucina a disposizione) era una grande opportunità per la popolazione. Oggi quest’immagine si potrebbe rivedere nei “fucuni” di via Plebiscito, i bracieri autorizzatri e abusivi che - senza soluzione di continuità - “annebbiano” la sera del 4 febbraio nella strada più popolare della festa. Ma restiamo sempre sul piano delle suggestioni culinarie.