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L'INTERVISTA

Quando a Catania c’erano i falchi. «Ma oggi a questa città servirebbero ancora»

Pino Vono, poliziotto in pensione, fra presente e passato: «Il fuoco cova sotto la cenere, stiamo attenti»

Di Concetto Mannisi |

L’ex “falco” ci ha preso gusto. E così, a tre anni dalla pubblicazione del libro “I Falchi nella Catania fuorilegge”, Pino Vono torna in libreria con un nuovo testo (“Catania: la Chicago del Sud”) che riporta le lancette dell’orologio indietro di una quarantina d’anni, ricordando senza retorica – ma piuttosto con  arguzia – che la Catania di oggi è figlia di quella di ieri e che oggi bisogna stare attenti a evitare quegli errori che hanno portato la città, in questi lustri, sull’orlo del baratro.

«Diciamo che questo secondo libro è un “atto dovuto” – sorride Vono – Sarebbe dovuto andare alle stampe prima dell’altro. Ho cercato di descrivere minuziosamente quel momento storico, raccontando il rifiuto della presenza di Cosa nostra a Catania da parte dei più, i progressi, i cambiamenti, le varie pax mafiose susseguitesi negli anni, compresa quella del ‘97 che ancora dovrebbe resistere. Gli omicidi successivi – come ho provato a spiegare – sono stati conseguenze di sgarri o, soprattutto, epurazioni interne».

Anche stavolta parte del ricavato andrà in beneficenza.

«E’ così. Tre anni fa, attraverso una suora italiana, aiutai la martoriata popolazione di Haiti. Questa volta quei pochi soldi che a noi non cambiano la vita ma che altrove ne salvano tante andranno all’associazione di Giuseppe Romeo, un ex carabiniere che si trova in Burkina Faso,  che vive sotto scorta e che dopo il colpo di stato aiuta la popolazione portando cibo, vestiario e denaro».

«Ha una storia tragica alle spalle Romeo – chiarisce Vono –  arrivato a Catania da Torino. Durante un viaggio in autostrada, impegnato a risalire la Penisola, ha un incidente e le sue figlie di 13 e 14 anni perdono la vita finendo in una scarpata. Da allora la sua esistenza è cambiata».

«Non cambia, invece – prosegue – la storia di questa città. Che secondo me sta facendo passi indietro. Non ci sono morti, è vero, ma il traffico di droga e di armi è a livelli incredibili, inoltre in tanti sono convinti di poter contare di una certa impunità a tutti i livelli. Scippi, furti, aggressioni… La microcriminalità sta riemergendo e tutto questo è figlio anche dell’evasione scolastica, specialmente nei quartieri più popolosi: questi ragazzi, che crescono con valori corrotti, sono alla mercé dei criminali e rappresentano il loro serbatoio. Tutto questo lo pagheremo fra cinque o dieci anni, se le istituzioni tutte non vi porranno rimedio».

Ci fossero i “Falchi” di allora….

«Oggi non sarebbe possibile, saremmo fuori tempo. Anche per una certa mentalità politica e delle stesse istituzioni. Però è chiaro che una presenza più assidua delle forze dell’ordine, in più aree della città, sia necessaria».

Anche se il rispetto per la divisa da parte di molti….

«Il rispetto è andato a farsi fottere. Ora anche il ragazzino risponde al collega “ahu, chi spacchiu voi?”…».

Impensabile ai vostri tempi.

«All’inizio abbiamo dovuto usare il… polso rigido. Pian piano “certa gente” ci ha capiti e quando entravamo nei bar tiravano fuori il documento senza che nemmeno glielo chiedessimo».

«Quei metodi “fuori legge” hanno avuto il loro effetto – ricorda – Qualcosa si potrebbe riproporre. Allora vedevi gli scippatori all’opera e prima che potessero entrare in azione li fermavi con una scusa e li tenevi in questura 24 ore. Sembra niente ma con quella mossa sai quanti scippi evitavi? Attenzione, di poliziotti bravi in strada ce ne sono anche oggi, ma devono stare attenti: basta uno schiaffetto a un ragazzino per essere chiamati a darne conto prima all’amministrazione e poi alla magistratura. Sono convinto che ci si sveglierà all’improvviso e si chiederanno altre regole».

Ha anche lei la sensazione che il fuoco stia covando sotto la cenere?

«Altroché. Se saltano gli equilibri qui i morti  si raccolgono con la paletta. Resta il fatto che la criminalità continua a fare affari e che la calma, per me, è soltanto apparente».

Si dice che a ogni “vecchio” poliziotto che va in pensione si perde un pezzetto di controllo del territorio.

«E’ così. Oggi le indagini si fanno soprattutto in “sala ascolto”, con le intercettazioni. Ottimo, vero. Ma il controllo del territorio dei nostri tempi era un’altra cosa».

«Poi – sottolinea – mi rendo conto che gli organici sono a zero. Siap, Coisp, Sap lo hanno sottolineato a più riprese, ma non gliene frega niente a nessuno. E  la questione è soprattutto politica. La politica può cambiare questa inerzia».

Di confidenti voi ne avevate tanti.

«Direi di sì. C’era la persona per bene ma c’era anche il delinquente che, magari, era stato “rispettato” durante un arresto: l’avergli fatto salutare i figli, l’avergli permesso di prendere una borsa di cambio…. Quello era un super favore che facevi e non di rado di tornava buono. Altro che il latitante che non prendevi appositamente o il delinquente al quale davi soldi…».

Ma lei rifarebbe tutto quello che ha fatto?

«Rifarei tutto. Certo, con  l’età ti rendi conto dei pericoli che hai corso, del fatto che allora si sparava ad altezza d’uomo, che anche gli inseguimenti in auto avevano un margine di rischio maggiore. Avevamo un coraggio eccezionale ma se oggi la gran parte di noi è ancora viva lo dobbiamo soprattutto a Gesù Cristo».

Non sono mancati i “sussurri” su di voi, in ogni caso.

«Inevitabile. C’è stato chi ha sbagliato in buona fede, chi per leggerezza, chi – e questi non li perdono – perché pretendeva di arrotondare nella maniera sbagliata lo stipendio avuto dallo Stato. Con la gran parte dei colleghi, però, il rapporto è stato straordinario. Un po’ meno con qualche funzionario. Chi guidava pensava al “raccolto” ma su strada rischiavamo noi. E a ogni cambio di gestione cominciavano gli esami, perché non tutti si fidavano del nostro lavoro. C’erano pure i primi pentiti e la tensione si avvertiva, eccome. Il ricordo più brutto? Quando ho subito l’attentato e invece di essere tutelato fui mandato in giro per l’Italia: soltanto grazie alla mia testa dura riuscii a rientrare a Catania».

Le è capitato d'incontrare qualcuno dei suoi “clienti”?

«Noi di gente ne abbiamo arrestata tanta, in passato: “Pippo ’u maritatu” Garozzo, Giuseppe Pulvirenti il “malpassotu”, Giuseppe Santapaola fratello di Nitto, Ciccio Mangion, Sebastiano e Gaetano Laudani… E poi tanti pesci piccoli. Tantissimi. Alcuni ancora oggi li incontro e mi salutano, mi dicono che li ho aiutati ma io non ricordo. Però raccontano particolari veritieri. Vabbè, fa piacere. Pur considerando che ci sarà anche chi si volta dall’altra parte».

Chissà quanti aneddoti, a tal proposito. Suvvia, ce ne dica uno. In fondo tutto è ormai in prescrizione….

«Non c’è bisogno di ricorrere alla prescrizione. Ricordo l’arresto di Sebastiano Laudani, il patriarca dei “Mussi di ficurinia”. Eravamo io e Angelo Panebianco. Lo notammo a Canalicchio e lui si infilò nella macelleria di via Ferro Fabiani, con fare indifferente. Andammo a prenderlo e, cercando di non dare nell’occhio, lo mettemmo in mezzo a noi nella nostra moto: una “Benelli”. Era imponente, quell’uomo, e c’era il rischio di finire in terra in quelle condizioni. Per fortuna riuscimmo ad allontanarci da lì e potemmo chiamare i nostri colleghi con le auto. Lui ci fece i complimenti». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA