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Sparatoria Librino, «Cappello ordinò: “È iddu, è iddu, sparaci”…»

Di Vittorio Romano |

Catania – Martino Carmelo Sanfilippo – il primo a essere arrestato dai carabinieri, insieme con Carmelo Di Stefano (entrambi esponenti dei Cursoti Milanesi), per il conflitto a fuoco dell’8 agosto scorso tra Librino e Sangiorgio con i rivali del clan Cappello – decide di collaborare con la giustizia. E, in occasione di un interrogatorio, rispondendo alle domande rivoltegli dagli inquirenti, ricostruisce «in termini chiari e precisi» la dinamica degli accadimenti e riferisce anche di un episodio avvenuto il giorno precedente (il 7 agosto), che avrebbe costituito il movente dell’azione omicidiaria.

«Io appartengo al gruppo dei Cursoti milanesi facente capo a Melo Di Stefano detto “Pasta cca sassa”; Nobile è parente di affiliati di spicco del clan Cappello e in particolare di Rocco Ferrara, Salvuccio Lombardo detto “il ciuraro” e Massimiliano Cappello. Del gruppo cui appartengo io, invece, facciamo parte io, i miei due fratelli Antonino e Michael, Roberto Campisi, Santo Tricomi e naturalmente Carmelo Di Stefano, che è il capo. Il giorno precedente all’omicidio io, Di Stefano e mio fratello Michael con Campisi e Tricomi c’eravamo recati al bar “Diaz” gestito dal Nobile perché Melo voleva litigare con lui per via di una donna che interessava al Nobile e al figlio di Melo, e noi lo abbiamo accompagnato perché temevamo che potessero intervenire in favore del Nobile affiliati al clan Cappello. Dopo la lite, Massimiliano Cappello e Melo Di Stefano concordarono un appuntamento per il giorno seguente alle 10 a San Giorgio per risolvere la questione, e io ebbi incarico dal Melo di avvisare gli altri componenti del gruppo. Quella stessa notte, però, il figlio di Roberto Campisi, Giorgio, venne aggredito all’interno di un pub dove si trovava dal figlio di Salvuccio Lombardo “u ciaruru” detto Salvuccio junior, come a noi riferito dal padre Roberto Campisi. Noi quindi abbiamo capito che non c’era alcuna intenzione di risolvere la questione e non ci siamo presentati all’appuntamento fissato per l’indomani mattina, anzi ci siamo armati temendo ulteriori ritorsioni. Il pomeriggio, infatti, mentre noi ci trovavamo davanti a casa mia, io, Melo Di Stefano e Roberto Campisi abbiamo visto arrivare moltissimi scooter con tantissime persone armate anche con kalashnikov, tra i quali io ho riconosciuto Massimiliano Cappello, i fratelli Chisari, Rocco Ferrara, Salvuccio Lombardo e Mario Bonaventura. Il passeggero dello scooter condotto da Massimiliano Cappello ha cominciato a fare fuoco e mi ha colpito, io sono scappato subito dopo aver sparato un colpo in aria, ma ho visto Melo Di Stefano che sparava anche lui; anche Campisi era armato, ma non l’ho visto sparare. Io avevo una calibro 38, mentre Di Stefano una 9×21 e Campisi una calibro 38.

«Prima di essere colpiti – prosegue Sanfilippo – quando già i passeggeri dei motorini esplodevano colpi di arma da fuoco anche contro la mia macchina, una Fiat Panda di colore nero, io istintivamente ho esploso dei colpi di pistola con la canna rivolta verso l’alto. Sono certo di non aver colpito nessuno perché, quando ho cominciato a scappare, ho visto tutti in piedi e nessuno era disteso sul selciato. Melo Di Stefano e Roberto Campisi erano, invece, a bordo di una Mini Cooper di colore nero condotta da Campisi. Avevo visto Di Stefano che sparava e poi lui stesso mi ha confermato che erano rimaste uccise due persone che io non conoscevo. Non abbiamo commentato ulteriormente quanto accaduto perché ci siamo nascosti e non ci siamo più incontrati per paura dei carabinieri». Interrogato in un’altra occasione, Martino Carmelo Sanfilippo fornisce un altro particolare della sparatoria che lo riguarda da molto vicino.

«Quando ci siamo fermati davanti ai motorini eravamo a una distanza di 5/8 metri. In tale frangente venivo riconosciuto e ricordo distintamente che Massimo Cappello, che si trovava tra i primi motorini a bordo di un Sh 300 di colore nero, indossava una maglietta di colore rosa e pantaloncini bermuda, credo di colore beige. Il Cappello aveva anche degli occhiali da sole ed era a volto scoperto e incitava il soggetto che si trovava in moto con lui a spararmi. Ricordo che diceva testualmente “è iddu… è iddu, sparaci”. Infatti questa persona, che aveva in mano una pistola, esplodeva al mio indirizzo più colpi di arma da fuoco, uno dei quali mi prendeva alla coscia destra. Mentre scendevo dalla Panda ho notato che sia Carmelo Di Stefano sia Roberto Campisi esplodevano dei colpi di arma da fuoco. In particolare, ho visto che Di Stefano aveva iniziato a sparare già mentre si trovava all’interno dell’auto e immediatamente dopo scendeva dal veicolo, mentre Campisi l’ho visto sparare quando era già sceso dal veicolo… ».

Tra i collaboratori di giustizia c’è anche Salvatore Chisari, cognato di Gaetano Nobile, che, nel corso di un interrogatorio reso il 10 agosto scorso, riferisce anche lui gli episodi che hanno poi fatto precipitare gli eventi fino alla sparatori dell’8 pomeriggio. E parla dell’aggressione subìta dal cognato il giorno precedente, gli incontro del mattino nella sua abitazione e in quella di Salvuccio Lombardo per risolvere la situazione, la decisione di organizzare la spedizione punitiva nei confronti del gruppo del Di Stefano “per scassarli”. «… Apprendevo telefonicamente da mia sorella che Gaetano era stato aggredito a colpi di casco da alcune persone guidate da Melo Di Stefano “pasta cca sassa”, che era con Roberto Campisi e Santo “aricchiazza”, una persona alta, magra e con i capelli brizzolati e altre persone di cui non conosco l’identità. Queste persone oltre ad aggredire fisicamente Gaetano lo avevano minacciato di morte… ». Anche Chisari riferisce del tentativo, fallito, di un incontro chiarificatore.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA