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Covid, in Sicilia il mistero dei ricoveri a due velocità: corsie rapide e degenze lumaca

Di Mario Barresi |

Ma in Sicilia, nel pieno della seconda ondata dell’emergenza Covid, stanno davvero remando tutti dalla stessa parte?La domanda scaturisce anche (ma non soltanto) dalle parole del dirigente dell’assessorato alla Salute, Mario La Rocca. Che, nell’autodifesa sul caso dell’audio ai manager sui posti da «caricare» in terapia intensiva e degenze Covid, lancia accuse pesanti. Parlando di «ostruzionismo» da parte di alcuni medici per impedire l’attivazione di letti.

Con un episodio, rivelato da La Rocca, in cui si cita il peccato, ma non il peccatore: «Pur di non svuotare alcuni reparti, per destinare i posti letto ai pazienti Covid, c’è chi ha scritto nelle cartelle cliniche diagnosi inventate, ne ricordo una che parlava di tubercolosi, ma non era vero».

Un’accusa che andrebbe formalizzata (la prima occasione utile è oggi, nell’audizione in commissione Sanità all’Ars, in cui, oltre a La Rocca, è stato chiamato l’assessore Ruggero Razza), c’è però qualche elemento oggettivo che può essere approfondito. Alla giusta distanza dal gioco delle parti. La gestione dell’emergenza coronavirus, in Sicilia così come ovunque, ha cambiato gli assetti in corsia. La Regione, contrariamente ad altre, ha scelto il modello cosiddetto “a ospedale aperto”, ha rivendicato sabato in conferenza stampa Razza, precisando che «noi non abbiamo sospeso le attività ordinarie», anche se «nelle aziende riconvertite c’è un rallentamento».

C’è un “lato b” di questa narrazione. Ed è la doppia velocità con cui gli ospedali rispondono all’emergenza Covid. Non impressioni, ma numeri. Allineati da un report dello stesso assessorato alla Salute, aggiornati allo scorso 15 settembre. Nell’analisi si mettono assieme molti dati (alcuni utili a capire altre cose), fra cui due indicatori: la degenza media dei pazienti Covid e il rapporto fra ricoveri e dimissioni. Tutto in un periodo compreso fra il 18 ottobre e il 15 novembre scorsi.

Il primo macro-trend è quantitativo. Il peso della risposta di cure ai contagiati siciliani (il dato è cumulativo di terapie intensive e degenze ordinarie) è in gran parte addossato sugli ospedali delle due città più grandi: sui 2.939 ricoveri registrati in queste quattro settimane, ben 1.026 sono nelle strutture di Palermo e provincia e 842 nel Catanese, seppur con un tasso di saturazione diverso, rispettivamente all’82% e al 96% al 15 novembre. Minore, soprattutto in relazione all’offerta di letti, è il contributo del Messinese (160 ricoveri, con un tasso di occupazione del 73%), rispetto, anche in termini assoluti, alla pressione su Ragusa (232 pazienti, 81% di posti occupati) e Trapani (184 col 90%).

Eppure le cifre più significative sono altre. E riguardano, soprattutto, la durata dei ricoveri. In Sicilia un contagiato che entra in ospedale, ne esce (vivo) in media dopo 12,6 giorni, più basso del dato nazionale (10,5), tutto sommato in linea con statistiche internazionali che stabiliscono una forbice più ampia, fra 10 e 13 giorni. Ma ciò che sorprende è l’enorme differenza che c’è fra alcuni dei 14 ospedali siciliani ritenuti «sopra-media» e i 16 «sotto-media».

Si va infatti da 2 giorni a quasi tre settimane di durata media delle degenze dei pazienti Covid. In mezzo c’è di tutto. Entrando nel dettaglio, i dati vanno chiariti. L’ospedale-lampo (il San Giacomo D’Altopasso di Licata) ha un rilievo statistico poco utile, visto che c’è soltanto un paziente dimesso su 8 ricoverati. Più significative, invece, sono le performance di altre strutture: il Guzzardi di Vittoria (4,5 giorni di permanenza media dei 38 dimessi su 78), il Papardo di Messina (6,4 giorni, seppur con 13 dimissioni su 74 ricoveri), l’Ospedale dei Bambini di Palermo (6,5, ma con 29 dimessi su 31), il San Giovanni Di Dio di Agrigento (7 giorni sui 12 dimessi di 83), il Gela (7,4 con 54 ingressi). Più sale il numero di pazienti, più si allunga la permanenza in corsia. Con qualche eccezione virtuosa: l’Umberto I di Siracusa, che tiene una media di 8,8 su 48 dimessi dei 94 ricoverati, ma soprattutto il Garibaldi-Centro di Catania, in cui, nonostante la pressione dei 269 ricoveri Covid, riesce a dimetterne 151, con una permanenza inferiore a 9 giorni.

Le variabili da considerare sono numerose: la grandezza e la relativa dotazione organica, la tipologia di pazienti (e il peso, sul totale, di quelli in terapia intensiva), il ruolo dell’ospedale sul territorio, le strategie post dimissioni (cure domiciliari, Covid hotel o Rsa). Ed è per questo che talvolta alcuni risultati non sono assimilabili. Come nel caso del più lento nelle dimissioni, il Maria Ss. Addolorata di Biancavilla (20,8 giorni per i 12 dimessi su 32 ricoverati), rispetto all’altro ospedale-lumaca che lo segue a ruota, ovvero il Civico di Palermo, con 19,1 giorni per le 110 dimissioni sui 245 ricoveri. Fra gli altri “sopra-media” ci sono l’Abele-Ajello di Mazara (35 su 54, 19 giorni), il Policlinico di Messina (16,5 giorni per dimettere appena 32 malati su 86) e il S. Elia di Caltanissetta (16,4 giorni, 41 dimessi su 90).

La rapidità del turn over è uno degli elementi che mette sul tavolo il dirigente La Rocca nel suo sfogo contro i direttori generali, che «non avevano gli attributi per imporsi su alcuni medici». Questi ultimi, a differenza dei colleghi che «si stanno sacrificando dando l’anima in questa emergenza», secondo il dirigente generale della Pianificazione strategia, «non vogliono occuparsi» di pazienti Covid «per potere continuare a gestire pazienti in intramoenia».

Le prestazioni a pagamento svolte dai big della sanità siciliana sono compatibili con il Covid, soprattutto laddove drenano risorse umane? Il dibattito, fra gli esperti, è infuocato. Ma il punto è un altro. La comunicazione dei dati (come questi che pubblichiamo) all’opinione pubblica è fondamentale. Così come sarebbe opportuno, laddove ci fossero sospetti che dietro ai numeri si nascondano altre dinamiche poco chiare, denunciare eventuali abusi. Non soltanto alla stampa.

Twitter: @MarioBarresi

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