Brusca e il piano dei Corleonesi per spodestare Santapaola dal trono di Catania
Totò Riina voleva cambiare gli assetti e progettò l'omicidio di Nitto. Ma l'arresto di Santo Mazzei fece fallire il progetto
A un certo punto Totò Riina avrebbe voluto spodestare Nitto Santapaola dal ruolo di reggente. Al padrino corleonese non sarebbe andata a genio la linea diplomatica del boss catanese, che avrebbe tenuto lontane le bombe dall’Etna. L’attacco frontale allo Stato non era in linea con la governance mafiosa di Santapaola che stringeva mani ai potenti e banchettava con imprenditori e politici. E anche pezzi della magistratura. Stragi sì, ma fuori da Catania. Ed è questo silenzio-assenso infatti che è costato a Nitto Santapaola la condanna per l’attentato di Capaci del 23 maggio 1992.
Giovanni Brusca il puparo
In questa strategia mafiosa è stato protagonista Giovanni Brusca, tornato libero dopo 25 anni da detenuto e quattro da “vigilato” che in questi giorni è al centro di un dibattito giuridico. L’assassino del piccolo Di Matteo, dopo la vittoria di Riina su Bontate, era diventato “portavoce con i catanesi”. I messaggi che dovevano arrivare alla Cupola passano da lui. Lo "scannacristiani" teneva rapporti diretti con Nitto Santapaola, Eugenio Galea, Enzo Aiello. In un interrogatorio storico del 1997, svolto dai pm Amedeo Bertone e Nicolò Marino, davanti alla Corte d’Assise di Catania, Brusca raccontava di incontri che si susseguivano periodicamente: «Ogni settimana, ogni 15 giorni».
Angelo Siino il trait d'union
I “contatti” con i catanesi li avrebbe iniziati nel 1981. Brusca li collegava alla presenza a Catania di Angelo Siino, il ministro degli appalti della mafia scomparso qualche anno fa. A metà degli anni 80 cominciano i rapporti con Enzo Aiello, da sempre il braccio finanziario del clan, ed Eugenio Galea, “il portavoce” dei Santapaola-Ercolano.
L'obiettivo di Totò Riina
Ma torniamo all’obiettivo di Riina: quello di portare la strategia del terrore anche ad est dell’Isola. I Corleonesi, mentre facevano buon viso e cattivo gioco con Santapaola, pianificavano di affidare Catania a un nuovo capo. Ma per fare questo c’era bisogno di un uomo pronto a uccidere. La scelta è andata su Santo Mazzei, chiamato “u carcagnusu”, un malandrino che non aveva paura di sporcarsi le mani di sangue “istituzionale”.
Chi era Santo Mazzei
Mazzei è stato fatto uomo d’onore a Catania dopo la Strage di via D’Amelio. Partivano da Palermo Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, assieme a Nino Gioè. È stato lo stesso stragista a raccontarlo ai magistrati catanesi. «C’eravamo io, Bagarella, Gioè (Nino, ndr), Benedetto Santapaola, Enzo Aiello, Eugenio Galea, Salvatore, u ‘zu Turiddu Santapaola e se non ricordo male, Alfio, il nipote di Benedetto Santapaola, in questo momento non mi ricordo il nome. Ho fatto confusione, sbaglio con Alfio, Aldo Ercolano». Eravamo «alla periferia di Catania, non mi ricordo il punto preciso, cioè no non mi ricordo, non so individuarlo perché mi ci hanno portato».
Il piano diabolico dei Corleonesi
Si sono mossi in modo così diabolico i Corleonesi che alla cerimonia della “piungiuta” (battesimo di mafia) di Santo Mazzei hanno fatto partecipare anche Nitto Santapaola. Che forse aveva fiutato qualcosa. E infatti, qualche tempo dopo, deciderà di “sacrificare” il poliziotto Gianni Lizzio. L’omicidio di un uomo in divisa avrebbe in qualche modo allentato le tensioni tra Santapaola e Riina. Anche perché il boss catanese aveva un debito di riconoscenza nei confronti del capo dei capi, visto che lo aveva supportato nella conquista del trono mafioso catanese occupato fino alla sua morte da Pippo Calderone “cannarozzo d’argento”.
Perché il piano fallisce
Ma a far fallire il piano di Riina è stata la cattura di Santo Mazzei tra le curve dell’Etna. I poliziotti della squadra mobile di Catania lo arrestavano nel novembre 1992 assieme a Girolamo Rannesi. Il potere di Santapaola restava saldo. Il progetto di cambiare nome alla cupola però era solo rinviato.
La cattura di Brusca
Quando catturavano Brusca, nel 1996, il suo ruolo di "contatto” con i Santapaola e i Mazzei lo prendeva il suo erede criminale, Vito Vitale di Partinico. È lui che manteneva i rapporti con i catanesi, in particolare con Pippo Intelisano (‘u niuru), Alduccio La Rocca (nipote del boss di Caltagirone Ciccio), Francesco Riela (il volto economico dei trasporti del clan) e il delfino di Mazzei, Massimiliano Vinciguerra. Nelle carte del blitz Orione del 1998 era scritto come Mazzei avesse a disposizione in carcere un cellulare che serviva per dare direttive a Vinciguerra. Vitale aveva avuto il compito di mettere in atto il piano per spodestare i Santapaola. Vinciguerra riceveva gli ordini, che poi condivideva con Mazzei grazie al telefonino.
Il summit e la talpa
Nel 1998, ad uno dei summit con il padrino palermitano Vito Vitale, Vinciguerra però commetteva un errore. Faceva partecipare il santapaoliano Angelo Mascali “catina”. In quella riunione, come poi racconterà Mascali, Vito Vitale e Vinciguerra hanno stilato la lista dei santapaoliani da fare fuori: Nuccio Cannizzaro, Enzo Santapaola (il figlio di Nitto), Antonino Motta e Maurizio Zuccaro. Insomma i vertici del clan. Mascali, al rientro a Catania, era corso subito da Nuccio Cannizzaro a raccontargli tutto: i Mazzei, con l’aiuto dei Riela e di Aldo La Rocca, volevano diventare i nuovi capi della mafia catanese. Cannizzaro - c’è scritto nelle sentenze ormai definitive - ha preparato la sua contromossa.
Vinciguerra e la vendetta di Nitto
Vinciguerra era attirato in una trappola: ha avuto appena il tempo di prendere in mano la tazzina del caffè che lo hanno ammazzato. Strangolato e abbandonato dentro un bidone, dove è stato ritrovato qualche tempo dopo. Giovanni Riela, invece, è stato ucciso per errore, il vero obiettivo delle pistolettate era il fratello Ciccio. Il piano dei Corleonesi è fallito un’altra volta. E i Santapaola sono ancora ai vertici della famiglia catanese di Cosa Nostra.