Catania, il procuratore aggiunto Scavone: «Violenza, non basta la repressione»
«E sulla riforma della giustizia vi dico che..»
Sono lontani i tempi bui del 1990, quando il sangue scorreva a fiumi sulle strade catanesi. Oggi lo scenario, fortunatamente, è totalmente diverso. Fra i cittadini però c’è una percezione di insicurezza diffusa: da una parte la recrudescenza di certe pratiche criminali (come le auto cannibalizzate) dall’altra episodi di violenza che preoccupano i cittadini. Fabio Scavone è il procuratore aggiunto che coordina l’area dei reati contro la persona e il patrimonio. La sua scrivania è piena di fascicoli. Truffe, furti, rapine, piccolo spaccio. E ultimamente anche sparatorie.
Procuratore, Catania rimane una città grigia?
«Catania è certamente una città che si contraddistingue, al di là delle statistiche, per un elevato tasso di reati contro il patrimonio, non solo elevato dal punto di vista quantitativo ma soprattutto diversificato».
Quali sono i reati più diffusi?
«C’è un costante aumento dei reati che toccano il parco veicolare, in particolare il furto di parti di macchine. Abbiamo avuto la stagione delle marmitte catalitiche, oggi rubano gruppi ottici e sportelloni, di alcuni modelli di auto in particolare. C'è da dire che la cosiddetta riforma Cartabia ha legato la procedibilità dei furti alla querela. Probabilmente non ha tenuto conto di certe realtà sociali, come quella catanese e meridionale».
«La vittima del furto può essere esposta a una pressione da parte dell'autore del reato perché la remissione della querela comporta l’estinzione del reato. Prima, con la procedura di ufficio, la parte offesa si sentiva maggiormente tutelata poiché non era costretta a far dipendere da una sua scelta il punire l'autore del reato. È intuitivo cosa si intenda per sovraesposizione al condizionamento. I condizionamenti possono essere molto sottili, allusivi, gestuali. Questo è un dato che probabilmente ad altre latitudini non viene avvertito».
E le truffe?
«Quelle che stanno avendo una larga diffusione sono le truffe telefoniche. I truffatori sfruttano la suggestione di persone di una certa fascia di età, soprattutto anziani. È una truffa che fa leva sull'emotività accentuata di chi vive in solitudine e anche di una certa cultura televisiva. Chiariamo un punto: la cauzione per uscire dal carcere esiste negli Stati Uniti, non in Italia. E non dimentichiamo la grande platea delle truffe via internet».
Sparatorie, accoltellamenti, risse. Che sta succedendo?
«C'è un uso della violenza che è impressionante. Molto spesso anche una questione di viabilità si conclude con aggressioni violente. Ma anche i contenziosi condominiali in alcuni quartieri sono risolti con la violenza: pugni, accoltellamenti, fino ad azioni punitive. In realtà il paradigma è sempre Gomorra: un conglomerato di case popolari dove il tessuto sociale si è così degradato per cui si sono create tante cellule, le persone oneste devono fare conti con una platea di persone che vive in maniera decisamente criminale e persone che sono addirittura conniventi di questo sistema. Questo paradigma in parte, anche se in misura minore, a volte si ripropone con tutte le conseguenze del caso».
Non vi preoccupa il fatto che questi ragazzini abbiano a disposizione armi?
«Il fenomeno della disponibilità di armi in una città come Catania c’è sempre stato. Anzi, devo dire, quando ho cominciato l'avventura nel mondo giudiziario, ormai 36 anni fa, Catania era in testa a tutte le graduatorie per numero di omicidi. Omicidi che venivano commessi, quasi sempre, con armi da fuoco. Furono sostanzialmente i collaboratori di giustizia a riuscire a squarciare il buio che circondava le prime attività investigative che erano contraddistinte da poche risorse, da una tecnologia ancora ai primordi, da una cappa omertosa sicuramente ben più forte di quella di oggi. Gli atti di violenza a cui assistiamo oggi sono certamente inquietanti, ma lasciano pensare a un sistema che ha bisogno di correzioni, che non sono quelle giudiziarie o quelle repressive, ma certamente di natura sociale, educativa e formativa».
Procuratore, lei ha coordinato indagini anche su alcuni fatti di sangue.
«Mi sono occupato di alcuni casi. Uno su tutti, con una storia processuale che si è conclusa con la condanna in primo grado, è il caso della madre che ha ucciso la figlia. Sono vicende giudiziarie che ti segnano prima come uomo e poi come professionista».
Procuratore, allarghiamo l’orizzonte e parliamo di riforma della giustizia. Come l'ha accolta?
«Partiamo da una premessa. Mi piace sempre dire che io non faccio il magistrato, ma sono magistrato. Fin da quando ho cominciato la mia carriera ho affrontato riforme della giustizia. Nel 1987 eravamo alla vigilia del referendum sulla responsabilità professionale ai magistrati che fu introdotto sull’onda emotiva del cosiddetto caso Tortora e tutta la mia categoria era in subbuglio per questo tipo di normativa. Da allora in poi c'è stata tutta la parte legata alle stragi. Ho sempre lavorato in Sicilia, ho conosciuto personalmente, seppure per caso nelle scale di questo palazzo di giustizia Borsellino. Ricordo che mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha fatto tanti auguri per il mio futuro. Chiaramente la mia è una generazione che quei miti li ha sentiti parlare e li ha visti in carne ed ossa. Quindi è una generazione di magistrati che è rimasta particolarmente toccata dalla stagione delle stragi, o perché erano persone molto vicine a te come età, o perché comunque furono episodi talmente ravvicinati da squassare dalle fondamenta il sistema. Ora è la stagione in cui si ritiene che la separazione delle carriere sia la soluzione di tutti i mali della giustizia. Non è la risoluzione. La verità è che il funzionamento della giustizia va affrontato sempre in modo prismatico. È come il cubo di Kubik: l’azione deve essere sinergica, qua invece è come se volessimo risolvere le famose facce del cubo di Kubik solo su un lato senza pensare che ci sono gli altri. Per esempio quando citano come dato del guasto del sistema il tasso elevato di assoluzioni, sono riusciti in realtà a trasformare un dato positivo in negativo, perché un tasso elevato di assoluzioni è la dimostrazione che non c'è un appiattimento sulle tesi accusatorie, quindi il giudicante dimostra la propria autonomia, assolvendo».