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Chi è Brusca, così feroce da essere soprannominato “scannacristiani”. L’uomo che ha strangolato e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo
"'U verru" (il maiale), come viene anche chiamato, l'uomo che ha premuto il telecomando della strage di Capaci arrestato nel '96 con il fratello Enzo
L’uomo che ha premuto il telecomando a Capaci e fatto sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo è, con tutte le cautele previste per un personaggio della sua caratura criminale, una persona libera.
Anche se era un esito annunciato, la scarcerazione suscita comunque le reazioni più critiche. I familiari delle vittime avevano già espresso le loro preoccupazioni quando si è cominciato a porre, già l’anno scorso, il problema di rimandare a casa un boss dalla ferocia così impetuosa da meritare l’appellativo di “scannacristiani”. Nel suo caso sono stati semplicemente applicati i benefici previsti per i collaboratori “affidabili”. Se ne era già tenuto conto nel calcolo delle condanne che complessivamente arrivano a 26 anni. Ha terminato la misura della libertà vigilata di quattro anni. Brusca continuerà a vivere lontano dalla Sicilia sotto falsa identità e resterà sottoposto al programma di protezione.
La notizia provoca clamore per l’enormità e la crudeltà dei delitti e delle stragi che lo stesso Brusca ha confessato. Fedelissimo di Totò Riina, non solo ha ammesso di avere coordinato i preparativi della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Ha confessato numerosi delitti nella zona di San Giuseppe Jato, più di 150 omicidi. Ma ha soprattutto ammesso le sue responsabilità nel rapimento e nella crudele uccisione di Giuseppe Di Matteo il figlio tredicenne del collaboratore Santino Di Matteo. il ragazzino era stato portato via il 23 novembre 1993 da uomini travestiti da agenti della Dia. Fu tenuto in ostaggio e nascosto in vari covi, fino all’11 gennaio 1996 quando venne prima strangolato e poi sciolto nell’acido nell’ultima «prigione», quella nelle campagne di San Giuseppe Jato.

Santino Di Matteo era, tra tutti, il depositario dei segreti più ingombranti della cosca e aveva cominciato a svelarli al procuratore Giancarlo Caselli e ai magistrati della Dda palermitana. Ma così tanta violenza e orrore non si erano mai visti, neanche tra gente che non ha mai esitato a uccidere. “Mi sono chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte del piccolo Di Matteo. Non lo so – scrisse lo stesso Brusca nel libro scritto con l’ex vicepresidente di Libera don marcello Cozzi – Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per omicidio come questo non c’è perdono».
Davanti alla prospettiva di trascorrere in carcere il resto della vita anche lui, qualche mese dopo l’arresto, ha cominciato a rivelare i retroscena e il contesto di tanti delitti e degli attentati a Roma e Firenze del 1993. Brusca non nascondeva il tormento di ripassare in rassegna i suoi crimini più odiosi e quelli di cui era a conoscenza. Ma mise da parte ogni remora quando ebbe la certezza che ne avrebbe ricavato quei benefici che ora gli hanno ridato la libertà. Dalle sue rivelazioni intanto presero subito l’avvio numerosi procedimenti che hanno incrociato pure i percorsi dell’inchiesta sulla “trattativa” tra Stato e mafia.

Brusca era stato arrestato con il fratello Enzo il 20 maggio 1996 in una villa a Cannitello, nei pressi di San Leone, frazione balneare di Agrigento. I ricercati erano in compagnia delle mogli e dei tre figli (uno di Vincenzo e due di Giovanni) e non hanno opposto alcuna resistenza. Il covo era stato localizzato gia’ da alcuni giorni, ma la polizia non e’ intervenuta prima di ottenere la ”certezza” – ha detto uno degli investigatori – della presenza dei fratelli in casa.

Al momento della cattura Giovanni e Vincenzo Brusca stavano cenando con le rispettive mogli, Rosaria Cristiano e Piera Costanza, e i propri figli. Il menu’ era a base di pollo arrosto con contorno di patate alforno. La villetta di contrada San Leone e’ di proprieta’ di un emigrato di Favara (Agrigento), Antonio Scalia, che vive e lavora in Belgio, che l’ aveva affitta ad un giovane incensurato. Quest’ ultimo, a sua volta, due mesi fa, l’avrebbe sub affittata ad altre due persone la cui posizione e’ adesso alvaglio della polizia. Nel pomeriggio un poliziotto fuori servizio era entrato casualmente nella villetta per recuperare il proprio cane che si era liberato dal guinzaglio. Nella casa, ha riferito l’agente, ha visto un ”signore alto e una distinta signora”, ma non ha sospettato che potesse trattarsi del latitante. I vicini di casa non hanno notato alcunche’ perche’ gli abitanti del villino uscivano raramente.
E’ la sera del 20 maggio 1996 quando, intorno alle 21.30, una motocicletta smarmittata percorre le strade di Cannatello, una borgata marinara dell’agrigentino che in quei giorni è praticamente disabitata.
E invece dentro una villetta con le serrande chiuse ma con la televisione accesa c’è un boss in cima alla lista dei superlatitanti. In quel covo si nasconde Giovanni Brusca, soprannominato “‘u verru” (il maiale), l’uomo che ha premuto il telecomando della strage di Capaci. Con lui c’è il fratello Enzo, anche lui ricercato, insieme alle loro mogli e a tre bambini. Brusca sta parlando al cellulare quando davanti alla villetta passa la moto a tutto gas. Il rumore assordante di quel tubo di scappamento privo di silenziatore viene udito distintamente nella sala intercettazioni della Questura di Palermo da Renato Cortese, investigatore di razza, il “cacciatore” che dieci anni dopo riuscirà a catturare anche il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano . E’ la conferma che Brusca si trova proprio in quella villetta. Cortese dà il via ai suoi uomini, che in pochi istanti fanno irruzione all’interno della villa.
«Mi colpì quando, uscendo dalla questura per essere portato in carcere, trovai fuori dal portone gente normale, gente onesta, che applaudiva i poliziotti, urlava e mi gridava dietro cose irripetibili: mostro, bestia e altre cose simili. Ecco, per la prima volta toccavo con mano quello che realmente le persone pensavano di me. Quando finalmente ho preso coscienza del male che ho fatto, allora per me è stato come entrare in un incubo senza fine» aveva raccontato tempo fa nel libro “Uno così, Giovanni Brusca si racconta” di don Marcello Cozzi edito da San Paolo.
«Mi sono chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte del piccolo Di Matteo. Non lo so. Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un omicidio come questo non c’è perdono”, diceva ancora lo “scannacristiani” di Cosa nostra, ovvero Giovanni Brusca.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA