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Girgenti Acque, il «sistema» affari e politica dentro le Istituzioni

Di Mario Barresi |

Il padre di un ministro, ma anche il prefetto in carica. E poi politici. Tantissimi politici: due ex governatori e decine di esponenti nazionali, regionali, provinciali. Sindaci in carica e non, consiglieri comunali, ma anche ex magistrati e pezzi delle istituzioni; manager e imprenditori, ma anche carabinieri; burocrati, avvocati, commercialisti, giornalisti. Dopo la notifica dei 72 avvisi di proroga delle indagini si fa prima a dire chi non c’è, in quell’elenco. Destinato ad allungarsi già nelle prossime settimane.

Ma non è soltanto una questione di posti di lavoro in cambio di coperture a tutti i livelli. Girgenti Acque, la discussa società di gestione del servizio idrico e fognario nell’Agrigentino, non è soltanto quell’«assumificio» (copyright dovuto all’ex procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, oggi a Catania, nell’audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle eco-mafie il 15 marzo del 2015) di cui hanno beneficiato quasi tutti trasversalmente. Del resto, si dice fra il serio e il faceto al quinto piano del palazzo di giustizia, «la raccomandazione, in Italia, non è mai stato un reato». Un colosso privato con 330 dipendenti, assunti nell’ambito del libero mercato. Un po’ troppi, secondo l’Anea (Associazione nazionale autorità ed enti d’ambito) che parla di costo del personale «superiore alla media di settore». Dai 5,3 milioni di costo del personale del 2011 ai 7,7 del 2015 fra Girgenti Acque e la controllata Hydrotecne. Almeno un milione di stipendi, secondo la relazione degli esperti, andrebbe tagliato.

Ma passi pure (si fa per dire) che l’allegra gestione delle risorse umane, sia pure in un’azienda non pubblica, si riverbera sulle tariffe più che salate per i cittadini. Il punto, per chi è in prima linea nell’inchiesta, non è questo. Non è soltanto questo. Nelle 22 pagine di richiesta di proroga delle indagini preliminari – firmata dai pm Salvatore Vella, Alessandra Russo e Paola Vetro, coordinati dal procuratore Luigi Patronaggio – le ipotesi di reato sono di diverso profilo: corruzione, truffa, ricettazione, inquinamento ambientale, voto di scambio, false comunicazioni in ambito societario, danneggiamento e inadempimento nei contratti, frode nelle pubbliche forniture. Anche perché questa, adesso, diventa la madre di tutte le inchieste su Girgenti Acque, con allineamento di altri fascicoli aperti.

Ma ci sono tre numerini magici che danno il senso del contesto: 416. L’articolo del codice penale che descrive l’associazione per delinquere. Per questo più d’una voce, in Procura, usa la parola «sistema». Il sistema Girgenti Acque. Si potrebbe addirittura azzardare la parola cupola, se dalla Dda di Palermo l’embrione dell’inchiesta (alimentato dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia) non fosse tornata ad Agrigento “depurata” dall’aggravante del coinvolgimento mafia. Niente mafia, allo stato degli atti. Magari una spruzzatina di massoneria sì, visto che fra gli indagati figurano almeno tre iscritti a logge; uno dei quali, sentito dai magistrati, si vanta pure di essere una sorta di «scopritore di talenti politici agrigentini», poi protagonisti di carriere scintillanti.

Un «sistema», dunque. Forzando: una cricca. Che entrerebbe, con passo felpato, anche dentro i palazzi dello Stato. Già, perché la cosa che qui, all’ombra della Valle dei Templi, ha fatto più impressione è stato l’ingresso di carabinieri e fiamme gialle nell’ufficio del prefetto Nicola Diomede, che è nella lista degli indagati. Un’incombenza giudiziaria effettuata con la massima discrezione e il fair play dovuti al rispetto della carica coinvolta, ma che dà la misura della delicatezza dell’indagine. Il prefetto si chiude dietro a un legittimo «no comment». Ma da fonti investigative si apprende che il suo coinvolgimento sarebbe legato, fra le altre cose, alla mancata firma dell’interdittiva antimafia su Girgenti Acque. La vicenda fu anche oggetto di un’interrogazione parlamentare del senatore M5s, Mario Giarrusso: in virtù di una segnalazione dell’Anac di Raffaele Cantone del 2015, infatti, la società non doveva entrare nella white list della Prefettura, anche perché il suo presidente e azionista di maggioranza (al 51%), Marco Campione, anch’esso fra gli indagati, fu condannato, con sentenza passata in giudicato, nel processo sullo scandalo del cemento depotenziato nella costruzione dell’ospedale Sant’Elia di Caltanissetta. Un evidente cambio di rotta, annotato dai pm, rispetto al prefetto precedente Francesca Ferrandino, ora a Messina. Diomede motiverebbe la concessione della certificazione antimafia alla Girgenti Acque con il subentrato rigetto, nel 2016, da parte del Tribunale di Agrigento di una richiesta della Dia agrigentina, fatta propria dalla Dda di Palermo, di sequestro beni e sorveglianza speciale a carico di Campione ritenuto in odor di mafia. Un presupposto che però, sul fronte inquirente, non sarebbe ritenuto sufficiente a motivare la riabilitazione dell’azienda. Il tassello mancante del puzzle: non è dato sapere, però, se ci sia stata una contropartita per la presunta linea morbida del prefetto.

E qui arriviamo a un altro nodo cruciale. «Ma che c’entra Angelino Alfano con tutta questa faccenda?», si chiedono tutti ad Agrigento. E non solo. Qualcuno, addirittura, legan la scelta del “passo di lato” dell’ex leader di Ap in prospettiva elettorale, a queste nubi agrigentine, o magari – upgrade ancor più malizioso, seppur smentito con forza da fonti ufficiali – a un’altra fatwa politico-giudiziaria sul versante nisseno. Il ministro degli Esteri non è indagato né sfiorato dall’inchiesta su Girgenti Acque. E pure la posizione del padre – Angelo, 81 anni, ex vicesindaco e assessore dc ad Agrigento – sarebbe fra le meno pesanti. Più che altro un “facilitatore”, magari spendendo il nome e il ruolo del figlio magari inconsapevole, per un’attività di lobbing in cui non dovrebbero esserci di mezzo assunzioni.

Paradossalmente il ministro Alfano, più che per il padre indagato, è in imbarazzo soprattutto per il suo rapporto consolidato con il prefetto. «Un alfaniano di ferro», è la definizione più gettonata per Diomede, palermitano di 60 anni, che, dopo una lunga carriera ad Agrigento, è stato capo della segreteria tecnica al ministero dell’Interno con Alfano, prima di tornare nel 2013 nella città dei templi come prima destinazione da prefetto. Nessun collegamento diretto fra la sua condotta e il ministro (così come con quelle dell’ex deputato Enzo Fontama, alfaniano doc), però voci romane sostengono che l’inchiesta su Diomede abbia infastidito l’attuale titolare del Viminale. Ed è per questo che Marco Minniti avrebbe in testa un suo allontanamento da Agrigento. Magari da disporre già oggi, nel corso di un Consiglio dei ministri in cui si dovrebbe discutere anche di turn over di prefetti.

Il «sistema» Girgenti Acque, al di là di Alfano e dei suoi uomini, è soprattutto uno scambio di amorosi sensi fra affari e politica, fra imprenditoria e palazzi. Chi ha avuto modo di leggere le informative delle forze dell’ordine pone due personaggi al di sopra di tutti gli altri. Campione, il deus ex machina della società, e Riccardo Gallo, ras forzista agrigentino. L’ex deputato, dimessosi da Montecitorio perché eletto all’Ars, uno dei siciliani più potenti di Forza Italia in Sicilia. E Campione, pur da sempre dialogante con tutti i partiti, negli ultimi mesi avrebbe costituito «un asse di ferro» con il deputato regionale. Fino al punto da far elevare da chiacchiericcio a quasi-certezza l’idea di vedere l’imprenditore idrico candidato azzurro il 4 marzo nel collegio agrigentino. E qui subentra un altro pettegolezzo agrigentino sui tempi di politica, giustizia e media. Si parla dell’idea di Campione di “blindarsi” dalle inchieste giudiziarie, con l’immunità parlamentare, tentativo ora messo in discussione dalla divulgazione non casuale dell’ennesima indagine a suo carico. Ma forse sarà l’ennesima coincidenza.

Ma non c’è soltanto Forza Italia nell’agenda di Campione. A giudicare dai nomi di big e comprimari – tutti indagati a vario titolo per associazione a delinquere finalizzata a corruzione, truffa, ricettazione, voto di scambio e false comunicazioni societarie – è una parata trasversale di politici. Fra cui due ex presidenti della Regione. Angelo Capodicasa (deputato uscente di Mdp, che ha deciso da poco di non ricandidarsi) e Raffaele Lombardo, quest’ultimo in compagnia del fratello Angelo, ex deputato regionale, con un plausibile collegamento a due fedelissimi mpa: l’ex presidente della Provincia di Agrigento, Eugenio D’Orsi, e l’ex sindaco di Gravina, già dirigenti Acoset e Girgenti Acque, Giuseppe Giuffrida. Ma il campionario contempla molti altri nomi: da Giovanni Panepinto (ex deputato regionale del Pd) a Giuseppe Scozzari (ex deputato della Rete, poi concentratosi sull’attività forense, nel cda di Girgenti Acque), fino a sindaci in carica, è il caso di Salvatore Gabriele (Pantelleria) ed ex come Vincenzo Corbo (Canicattì), Giuseppe Giuffrida (Cattolica Eraclea), Michele Termini (Campobello di Licata), ma anche tre ex assessori provinciali (Calogerino Giambrone, Piero Macedonio e Luca Cristian Salvato) e l’attuale consigliere comunale Gerlando Gibilaro. Tutti con responsabilità singole da valutare e ruoli da decriptare. Eppure tutti, rigorosamente, trasversali.

Una prima parte dell’indagine, emersa nel 2016 sull’asse Agrigento-Palermo, aveva messo sul tavolo la parentopoli delle assunzioni. Ma negli ultimi 16-18 mesi s’è andato avanti. Stralciando alcune posizioni e aggiungendone di nuove. Ancora coperte dal segreto istruttorio le singole condotte dei politici. «Coperture politiche in cambio di assunzioni e voti», è la vulgata per ora sin troppo generica. Anche se qualcuno sussurra la parola «mazzette». Non solo per i politici, ma anche per altri pezzi delle istituzioni.

Perché, ad esempio, nell’inchiesta risultano anche cinque carabinieri: tre in servizio nelle stazioni dell’Agrigentino e due nel Nucleo operativo. Uno di loro, secondo quanto emerge dalle carte, sarebbe stato il destinatario di un’insolita “consegna” da parte di Campione. Che, qualche anno fa, gli portò le cimici rinvenute negli uffici di Girgenti Acque. Un rapporto di fiducia consolidato anche dal fatto che la moglie del carabiniere sarebbe una dipendente della società idrica.

Dei colletti bianchi (da Giovanni Pitruzzella, capo dell’Antitrust, a scendere) si parla diffusamente nell’altro articolo accanto. Ma, fra i tanti nomi in colonna, ce n’è un altro che sorprende: Pietro Di Vincenzo, imprenditore nisseno e locale leader di Confindustria “spodestato” da Antonello Montante, all’epoca rampante alfiere della legalità. Di Vincenzo, oggi libero cittadino, ha scritto una lunga pagina dell’imprenditoria della Sicilia centrale. Un’azienda con centinaia di dipenddenti, ma anche una condanna a 9 anni e 6 mesi per estorsione e cessione fittizia di beni confermata in Cassazione. Che c’entra lui – ma anche molti altri ancora – con il «sistema» di Girgenti Acque? Saranno i prossimi mesi d’indagine a dircelo. Magari smentendo un perfido pronostico che da ieri circola nell’ambiente degli avvocati agrigentini. Quello di «un’inchiesta tanto onnicomprensiva e ambiziosa da diventare una bolla di sapone». Una Final Destination sulla quale, in Procura, sono tutt’altro che d’accordo.

Twitter: @MarioBarresi

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