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L’arresto di Barbara Mirabella, la verità sui tempi dell’inchiesta catanese, l’imbarazzo di FdI e il “silenzio” della città

I precedenti giudiziari rassicurano il centrodestra, ma la vicenda è senza dubbio una “spina” per la Meloni e il suo partito 

Di Mario Barresi |

La suggestione politica è già racchiusa nei titoli dei tg nazionali che dalla mattinata rilanciano la notizia catanese: arrestata una candidata di Fratelli d’Italia alle Regionali siciliane. Musica, per le orecchie di chi vede come il fumo negli occhi l’ascesa di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi: si moltiplicano gli interventi, a livello nazionale e siciliano, di esponenti di Pd, M5S e sinistra, nel silenzio imbarazzato del centrodestra. A Roma quanto a Palermo. Soltanto i meloniani, a livello locale, intervengono sull’inchiesta che ha coinvolto l’ex assessora Barbara Mirabella, con il coordinatore etneo Alberto Cardillo che si dice «attonito per la tempistica».

E questo è il primo punto delicato, assieme al tipo di misura (i domiciliari) adottata dal gip, ritenuta «eccessiva» da Enrico Trantino, avvocato difensore di Mirabella, oltre che suo collega nella giunta comunale catanese ed esponente musumeciano riavvicinatosi al partito.

Partiamo dalla prima questione: si può davvero pensare a un caso di giustizia a orologeria? Al netto della constatazione  che, come dimostrano gli arresti di aspiranti consiglieri comunali a Palermo alla vigilia delle recenti elezioni amministrative, in Sicilia il clamore mediatico sulla questione morale non influenza più di tanto l’esito del voto (in quel caso, a giugno, stravinse il candidato del centrodestra, Roberto Lagalla), la scansione temporale dell’ultima inchiesta catanese pone al di sopra di ogni sospetto la Procura.

La richiesta di applicazione delle misure cautelari, come confermano fonti delle difesa degl indagati, è stata firmata dal pm Fabio Regolo, col visto del procuratore Carmelo Zuccaro, «a fine giugno». Meno di un mese dopo la consegna, da parte della Squadra mobile etnea, della corposa informativa in cui si ricostruisce in modo chiaro tutta la vicenda. Quindi con una certa velocità, se si considera la tempistica standard. L’ordinanza del gip Sebastiano Di Giacomo Barbagallo reca la firma del 20 settembre, tre mesi dopo la richiesta dei pm.

Il giudice spiega in modo chiaro perché accoglie «integralmente» la richiesta di arresti domiciliari per Mirabella, nonostante si fosse dimessa dalla giunta a fine aprile scorso, proprio per rispettare i termini per la candidatura all’Ars. L’ex assessora, per il giudice, «ha dimostrato di possedere una spiccata abilità nel rapportarsi e anche condizionare le scelte degli organi di tutte le pubbliche amministrazioni a vario titolo coinvolte nella vicenda». A partire da Salvo Pogliese, estraneo all’indagine, suo mentore politico e sostenitore (in parte, visto che il vero cavallo per l’Ars è Dario Daidone) della sua candidatura alle Regionali.

All’ex sindaco, ricorda il gip citando un’intercettazione, Mirabella avrebbe fatto «firmare col sangue tutte le cose che già so che ci servono!». Quindi, per il gip, a prescindere dall’uscita dall’amministrazione comunale (peraltro commissariata dopo le dimissioni dello stesso Pogliese), la «pericolosità sociale» dell’imprendittice nel campo degli eventi resta fino al punto di ritenere «sussistente il rischio di ulteriori condotte illecite».

Fin qui le carte che s’incrociano con la politica. Che, in Sicilia, s’interroga sul potenziale effetto che l’inchiesta catanese, al netto delle polemiche sulla leader patriota Meloni,  potrebbe avere sulla corsa del candidato governatore del centrodestra. Renato Schifani non commenta, ma dal suo entourage trapela serenità. Forte, l’ex presidente del Senato imputato a Caltanissetta nel maxi-processo sul sistema Montante, di un precedente risalente proprio a cinque anni fa: l’arresto dell’allora sindaco di Priolo, Antonello Rizza, candidato con Forza Italia, al culmine della campagna grillina sugli “impresentabili” a sostegno di Nello Musumeci. La cui elezione non fu scalfita da questa né da altre vicende giudiziarie.

Un altro tema si pone però sulla selezione della classe dirigente di FdI. Mirabella, assessora legatissima a Pogliese, è una new entry nella galassia meloniana. L’ex sindaco, cooordinatore regionale del partito, potrebbe pagare un prezzo “morale” negli equilibri interni al partito, dopo essere stato candidato in un seggio blindato alle Politiche nonostante la condanna per peculato a Palermo nell’inchiesta sulle “spese pazze” all’Ars e la conseguente telenovela sulla sospensione da Palazzo degli Elefanti che ha tenuto in ostaggio Catania per lunghi mesi? Fonti anche nazionali di FdI tendono a rassicurare: «Salvo gode della piena fiducia di Giorgia».

Allo stesso modo, in casa patriota, si ridimensiona con sdegno un altro sillogismo politico legato all’inchiesta: Francesco Basile, l’ex rettore oggi primario di Chirurgia al Policlinico, per il quale la Procura aveva pure chiesto i domiciliari (per 18 capi d’imputazione complessivi, fra cui quello in cui è coinvolta Mirabella) è il marito di Francesca Catalano, apprezzato “angelo” della senologia etnea, ma anche candidata con FdI all’Ars nel collegio di Siracusa, sua città d’origine. Catalano non è nemmeno vagamente sfiorata dall’indagine, ma è ormai da anni la “spin-doctor” della politica sanitaria di DiventeràBellissima. Il movimento del governatore e dell’assessore alla Salute, Ruggero Razza, promotore di un evento per celebrare la fine del suo mandato, in un hotel catanese in cui la coppia Basile-Catalano era in prima fila ad applaudire.

La responsabilità penale è personale: Catalano continua a testa alta la corsa all’Ars in FdI. Ma più seria, invece, è la riflessione sul coinvolgimento di Basile, già imputato a Catania per “Università Bandita”. Il processo che mette alla sbarra gli ex vertici dell’Ateneo, per i concorsi truccati, cominciato oltre mille giorni dopo il blitz. Anche qui c’è una guerra in punto di diritto fra i difensori e la Procura, che ha impugnato la decisione del gup sul non luogo a procedere per il reato di associazione per delinquere, derubricando in abuso d’ufficio la turbata libertà di scelta del contraente.

Ma, in attesa della decisione della Corte d’Appello (prevista per il prossimo 15 ottobre), riecco Basile protagonista delle cronache giudiziarie. Non più da rettore, ma comunque sempre da dominus della medicina catanese. Nel complice disinteresse del ristretto club accademico, lo stesso alla sbarra in un processo in cui l’Ateneo non s’è costituito parte civile. Tutto cambia per non cambiare niente. Come se “Università Bandita” fosse un brutto sogno, un brufoletto già estirpato con infastidita facilità. In una città abituata a tutto, dalle inchieste sui colletti bianchi alla sospensione-fiume dell’ex sindaco. Silenziosa e rassegnata.

Twitter: @MarioBarresi

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