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L’omicidio Scopelliti e il pentito catanese che svela da anni i grandi misteri d’Italia

Di Redazione |

CATANIA – Il pentito catanese Maurizio Avola, che con le sue dichiarazioni ha impresso un’accelerazione all’inchiesta sull’omicidio del magistrato di Cassazione Antonino Scopelliti, ucciso in Calabria il 9 agosto del 1991, ha iniziato a collaborare con gli inquirenti siciliani nel 1994 ma solo recentemente avrebbe iniziato a parlare con i magistrati calabresi, mentre le sue dichiarazioni sono già entrate negli anni in decine di processi sparsi nelle aule di giustizia di tutta Italia.

Avola, che oggi ha 57 anni, durante la sua carriera criminale è stato un «sicario» della famiglia mafiosa dei Santapaola.  Arrestato nel novembre del 1993, collabora con la giustizia – a fasi alterne – dal marzo del 1994. Fino a oggi ha già confessato poco meno di un centinaio di omicidi. Fra gli omicidi eccellenti di cui si è incolpato anche quello del giornalista Giuseppe Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984. Avola – che per il delitto Fava è stato condannato insieme con i boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano – svelò anche che i “santapaoliani” preparavano pure l’omicidio del figlio del giornalista, Claudio.

Ma il collaboratore catanese ha deposto come teste d’accusa in decine e decine di processi, da quelli riguardanti i più grandi misteri d’Italia, come la presunta trattativa Stato-Mafia, a quelli sui crimini della mafia catanese, come l’attentato incendiario che nel febbraio del 1991 distrusse il ”Sigros” di Misterbianco.

L’ex killer ha quindi permesso di fare luce con le sue dichiarazioni su crimini che per anni sono rimasti irrisolti, ma anche di chiarire dinamiche molto più grandi: deponendo nel processo a Marcello Dell’Utri a Palermo per esempio fu il primo a mettere in relazione la stagione del terrorismo mafioso (le bombe del ’93) con Silvio Berlusconi e Forza Italia. Ma Avola ha deposto, come detto, anche al processo per la trattativa Stato-Mafia rivelando che l’esplosivo per la strage di Capaci fu inviato da Catania dalla cosca Santapaola. E’ stato uno dei pentiti ammessi nel processo per la strage di via D’Amelio. Ha raccontato che la mafia voleva uccidere l’allora giudice di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. Ha deposto nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa all’ex presidente della Regione, Raffaele Lombardo, è uno dei pentiti del processo per lo stesso reato a Mario Ciancio, ha deposto al processo al colonnello Mario Mori sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano, rivelò i misteri dell’attentato alla villa di Pippo Baudo a Santa Tecla, depose al processo per voto di scambio all’ex ministro Salvo Andò. E la lista potrebbe continuare con i tanti processi sugli “anni di piombo” catanesi, quando a Catania c’erano oltre cento omicidi l’anno.

Insomma, Maurizio Avola era un sicario («il miglior sicario del clan Santapaola», dicevano gli investigatori), ma evidentemente era bene informato sulle strategie globali di Cosa Nostra. D’altronde divenne “uomo d’onore” a soli 21 anni e fu “battezzato” da Aldo Ercolano. 

Solo negli ultimi anni, secondo quanto si è appreso, avrebbe iniziato a parlare del delitto Scopelliti e dell’intesa tra mafia e ‘ndrangheta che starebbe dietro l’omicidio. Fu un commando di sicari venuti dalla Sicilia a compiere l’agguato in cui, il 9 agosto del 1991, morì il magistrato della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti. Un delitto che suggellò, forse per la prima volta, un patto d’acciaio tra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese che acconsentì a che l’omicidio fosse compiuto sul proprio territorio, a Villa San Giovanni. A 28 anni dal delitto, è questo il quadro investigativo che emerge dall’inchiesta riaperta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nella quale sono indagati 17 boss siciliani e calabresi, tra i quali la «primula rossa» Matteo Messina Denaro.

Sarebbe stato proprio il boss ancora latitante – secondo quanto raccontato a Lombardo dal pentito catanese – a «presiedere» un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani nel corso del quale fu stretto l’accordo con i calabresi. Del «favore» fatto dalla ‘ndrangheta a Cosa nostra – preoccupata per l’esito del maxiprocesso in Cassazione, in cui Scopelliti doveva sostenere l’accusa – si è parlato sin da subito dopo il delitto, tanto che boss del calibro di Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nitto Santapaola ed i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, finirono sotto processo nel ’94 e nel ’98 ma furono assolti in via definitiva dall’accusa di avere svolto un ruolo nell’assassinio. E del «favore» ha parlato recentemente anche un altro collaboratore di giustizia, Francesco Onorato, sentito nell’ambito del processo «’ndrangheta stragista». 

L’intesa mafia-‘ndrangheta, secondo la Dda Reggina, nacque dopo la decisione presa ad Enna da Totò Riina nel 1991 di dichiarare guerra allo Stato. Da quel momento i mafiosi intensificarono i contatti e le pressioni sui boss calabresi in un susseguirsi di incontri alla presenza di tutti i capi della ‘ndrangheta. E alcune delle cosche più influenti dissero sì.

Per questo si pensava che Cosa Nostra fosse il mandante dell’omicidio Scopelliti. Adesso, invece – ha spiegato il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri – «la nuova proiezione investigativa fa ritenere che anche gli esecutori, pur godendo di appoggi della ‘ndrangheta locale, siano venuti dalla Sicilia, che anche nella fase esecutiva Cosa nostra abbia svolto un ruolo fondamentale».

E’ così che nel registro degli indagati sono finiti nomi di spicco della mafia siciliana. Oltre a Messina Denaro sono coinvolti i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Tra gli indagati anche il gotha delle più potenti cosche della ‘ndrangheta: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. 

A dare l’impulso decisivo alla nuova inchiesta, è stato proprio Avola che, nell’agosto scorso, permise al Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, alla Squadra mobile di Reggio Calabria e alla Polizia scientifica di Reggio e di Catania, col coordinamento della Dda, di trovare nel catanese il fucile calibro 12 – oltre a cartucce, un borsone e due buste – che sarebbe stato usato nell’agguato. Materiale che sarà oggetto di una perizia tecnica dalla quale potrebbero emergere elementi decisivi per l’inchiesta.

Dichiarazioni, quelle di Avola, che i magistrati reggini vagliano con molta attenzione, anche perché, pur collaborando dal 1994 con i pm siciliani, solo recentemente ha parlato del delitto Scopelliti e dell’accordo mafia-‘ndrangheta. Che abbia taciuto finora perché dietro quell’accordo c’è qualcosa di inconfessabile che chiama in causa elementi deviati delle istituzioni? Un altro interrogativo al quale cercano di dare una risposta i magistrati reggini. 

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