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Mafia: il 6 agosto di 40 anni fa l'omicidio di Ninni Cassarà: condannati i killer e i mandanti, ma nelle sentenze non c'è chi tradì

«Convinciamoci che noi siamo dei morti che camminano», disse il vicequestore della Squadra mobile di Palermo al giudice Paolo Borsellino

Laura Distefano - Laura Mendola

05 Agosto 2025, 13:30

omicidio ninni cassarà 6 agosto 1985

«Convinciamoci che noi siamo dei morti che camminano». Fu la confessione che Ninni Cassarà fece a Paolo Borsellino durante il sopralluogo per l’omicidio di Beppe Montana, ammazzato l’estate del 1985 a Porticello. Il vicequestore della squadra mobile percepì che la Cupola di Cosa Nostra aveva già firmato la sua condanna a morte. Nonostante questo però rimase a Palermo. In ufficio. Lavorò fino all’ultimo istante. I killer attesero. Pazienti. Cassarà cambiò completamente abitudini. Cominciò a dormire alla squadra mobile, per parlare con la moglie usò un linguaggio in codice, iniziò a guardarsi alle spalle. Anche perché correvano voci di una talpa in polizia. La stessa che il 6 agosto di 40 anni fa avvertì i sicari che sarebbe tornato a casa da Laura quella sera. Eppure lo sapevano in pochissimi. Poco dopo le 14 di quel giorno aveva avvertito la moglie che sarebbe rientrato per cenare assieme. Qualcuno lo tradì. Ma nelle sentenze non c’è il nome della talpa, ma solo dei mafiosi che lo hanno ammazzato. Dei killer e dei mandanti.

Ma c’è un altro interrogativo che è rimasto senza risposte, nonostante i pentiti. Nonostante due processi. La domanda è: chi ha fatto da palo al commando che lo ammazzò? Il delitto Cassarà ha un filo diretto con l’omicidio di Beppe Montana. Fra i due delitti ci fu anche l’interrogatorio finito in tragedia del calciatore Salvatore Marino. Da un numero di targa i poliziotti che stavano indagando sull’uccisione del collega Montana arrivarono al giovane giocatore che a casa aveva 34 milioni di lire in contanti. Il calciatore morì e il ministro di allora, Oscar Luigi Scalfaro, cambiò i vertici della squadra mobile. Il giorno dopo fu ammazzato il vicequestore.

I pentiti raccontarono nei processi che i destini di Montana e Cassarà erano legatissimi. I capi della mafia palermitana decisero che i due poliziotti dovevano essere ammazzati. La colpa? Ebbero l’ardire di ordinare di indagare sulla famiglia di Ciaculli, su Michele Greco “il papa” e gli altri boss e soldati. Peccato però che gran parte del lavoro gli “sbirri”, così i mafiosi chiamavano i poliziotti, lo avevano già trasferito nel rapporto “dei 160”.

Con sentenza confermata dalla Cassazione nel 1998, furono condannati Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia. Furono condannati all’ergastolo come mandanti. I killer invece sono stati Antonino Madonia (meglio conosciuto come Nino), Giuseppe Greco “scarpuzzedda” e Giuseppe Giacomo Gambino “u tignusu”.

Quel giorno di 40 anni fa in via Croce Rossa c’era anche Giovanni Motisi, oggi l’ultimo grande latitante di Cosa nostra. Secondo un articolo di giornale pubblicato qualche mese fa sarebbe morto per un tumore, notizia però che non ha trovato riscontri nel mondo giudiziario e investigativo. Della sua scomparsa se n’è parlato diverse volte, ma non c’è mai stata una conferma ufficiale. Il mafioso della famiglia di Pagliarelli, che nel 1985 aveva 26 anni, era uno dei più fidati killer del gruppo di fuoco scelto da Riina per lo utilizzata per gli omicidi eccellenti.

Francesco Paolo Anzelmo, uno dei sicari di Cassarà che successivamente decise di collaborare con la magistratura, ha riferito al sostituto procuratore dell'epoca, Gioacchino Natoli (oggi indagato a Caltanissetta), che Motisi prese parte alle riunioni preliminari in vicolo Pipitone (il fortino della famiglia Galatolo). «La prima si tenne ad inizio luglio. L’ordine della commissione presieduta da Riina era di uccidere Cassarà e Montana», ha messo a verbale il collaboratore. E così fu.

La precisazione

Il legali di Gioacchino Natoli - avvocati Antonino Reina, Ettore Zanoni e Fabrizio Biondo - hanno inviato una nota in cui smentiscono in maniera prenetoria la notizia secondo cui il loro assistito sarebbe indagato a Caltanissetta, e definiscono la stessa notizia «infamante e destituita di ogni fondamento»