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L'approfondimento

Mafia, il patto di ferro tra Enna e Catania: misteri e moventi del delitto Calcagno

A vent’anni di distanza i boss ennesi parlano e dalle intercettazioni emerge il coinvolgimento di altri personaggi controversi non indagati

Di Laura Mendola e Laura Distefano |

Il legame mafioso tra Catania ed Enna è sporco di sangue. In questo mondo di mezzo (siciliano) sono avvenuti alla fine del 1991 i summit in cui i capimafia pianificarono omicidi di giudici e attentati con bombe e tritolo. L’obiettivo era destabilizzare il Paese. Dalle campagne ennesi, insomma, è partita la strategia stragista che ancora oggi non è stata del tutto decriptata. In quelle riunioni i pentiti posizionarono la presenza di Nitto Santapaola che seppur storicamente contrario alla strategia del terrore, come Bernardo Provenzano, si adeguò però alla linea durissima di Totò Riina.

I personaggi quasi insospettabili

In queste terre i boss potevano contare su personaggi quasi insospettabili. Di livello. Come il defunto Raffaele Bevilacqua che da Barrafranca avrebbe fatto da regista al delicato rapporto tra mafia, imprenditoria e politica. Dietro alla figura del boss morto lo scorso maggio c’è un vecchio omicidio che ricompare nelle recentissime carte del blitz Stiela, che tra gli indagati vede Sebastiano Calcagno. Figlio di Domenico, ammazzato il 18 maggio 2003 a Valguarnera mentre guidava la sua Mercedes (foto). Dietro la condanna a morte «la spartizione degli introiti per le forniture dell’appalto per costruire la strada Nord-Sud». Su quel delitto ci sarebbero altre verità rispetto a quelle che portarono alla condanna proprio del boss di Barrafranca come mandante assieme a esponenti delle famiglie di Cosa nostra di Caltagirone e Catania. A dimostrazione di come anche questo caso ci fu un “patto di ferro” con la criminalità organizzata etnea.

L’analisi della Dda di Caltanissetta

I magistrati della Dda di Caltanissetta sono precisi nell’analisi: «La tematica dell’omicidio» seppur a distanza «di 20 anni» emerge come argomento ricorrente dei dialoghi tra gli indagati. «Cristofero Scibona» – che è tra i più legati dell’uomo d’onore di Enna Sebastiano Gurgone – «interloquiva spesso oltre che con quest’ultimo anche con il figlio della vittima». I dialoghi facevano emergere «un notevole risentimento dei familiari del defunto nei confronti degli esponenti della famiglia Gangi (nome che venne fuori anche dalle intercettazioni proprio di Bevilacqua dell’inchiesta Ultrà) ritenuti responsabili quali mandanti». Precisamente «gli indagati» attribuirebbero «a Filippo Gangi (non indagato in questo procedimento e inoltre costituitosi parte civile nel processo Ultrà, ndr)» specifiche responsabilità nella morte di Domenico Calcagno.

La condanna a morte

Il 20 gennaio 2021 Scibona e il figlio della vittima stavano percorrendo la Ss 561 e passano vicino alla caserma dei vigili del fuoco. Il particolare sollecita un ricordo legato al movente dell’omicidio, che diventa alternativo o complementare a quelli già “certificati” nelle sentenze: «Io quando vedo questa caserma qua vedo gli occhi di tuo padre e le chiacchiere che sono nate. Le bombe sono cominciate a nascere qua in questa merda di caserma». Scibona continua a parlare dando spunti a prima vista inediti. Calcagno, poi ucciso, avrebbe cacciato Gangi dai lavori. E lui sarebbe andato da Raffaele Bevilacqua. «Se ne sono saliti a Barrafranca. Se ne sono saliti a Barrafranca… se n’è andato a ricorrere da suo padrino», racconta Scibona. Ma è il figlio di Bevilacqua, nell’indagine Ultrà, a fornire la versione dall’altra parte della barricata: «Il suo omicidio giustificato perché Calcagno gli ha fatto l’estorsione per la caserma. Gangi lo è andato a raccontare a papà». Da qui sarebbe stata decisa la condanna a morte, ma con l’autorizzazione – dicono le sentenze – dei boss catanesi.

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