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Migranti, quei racconti dell’orrore che hanno permesso di arrestare gli autori di torture e violenze in Libia

Di Lara Sirignano |

PALERMO – Quando la polizia di Agrigento ha mostrato loro le foto dei profughi che poche settimane prima erano arrivati a Lampedusa non hanno avuto dubbi. I volti dei carcerieri che per mesi li hanno tenuti prigionieri in un lager libico non possono dimenticarli. Senza esitazione hanno riconosciuto in due egiziani e in un migrante della Guinea gli uomini di Ossama, il capo del campo di prigionia in cui erano stati detenuti. Picchiati con bastoni, calci di fucile, tubi di gomma, frustati, torturati con scariche elettriche. Minacciati, costretti a vedere morire di stenti e percosse amici e parenti.

Non dimenticheranno l’orrore e non hanno avuto paura di raccontarlo, consentendo alla Dda di Palermo e alla polizia di arrestare almeno tre dei responsabili della prigionia e delle violenze subite. I carcerieri – Mohamed Condè, alias Suarez, Hameda Ahmed e Mahmoud Ashuia – sono stati fermati stamattina dalla Mobile di Agrigento nell’hot-spot di Messina dove, dopo l’arrivo a Lampedusa, erano stati trasferiti.

Sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, reato che attribuisce alla dda di Palermo la competenza a indagare, sequestro di persona, violenza sessuale e, per la prima volta, di tortura, reato introdotto nel luglio del 2017.

Le vittime, arrivate al centro di accoglienza dell’isola delle Pelagie, dove attualmente ci sono 154 extracomunitari, dopo i carnefici, hanno raccontato come funzionava il lager gestito da Ossama, un enorme campo di prigionia dove migliaia di profughi diretti in Italia vengono trattenuti, picchiati e torturati. I carcerieri chiedono un riscatto alle famiglie dei prigionieri e solo chi paga può mettersi in mare verso l’Italia. I migranti, con inganno o violenza o dopo essere stati venduti da una banda all’altra o da parte della stessa polizia libica, venivano rinchiusi nella ex base militare.

Le vittime hanno raccontato di essere state sottoposte ad atroci violenze fisiche o sessuali e di aver assistito all’omicidio di decine di migranti. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un «telefono di servizio», tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia. (COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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