Notizie Locali


SEZIONI
Catania 17°

IL RITRATTO

Giovanni Falcone e i suoi tanti nemici: amato all’estero e odiato nel suo Paese

Le bocciature in serie, i veleni e i rilievi dei colleghi persino sulla sua vita privata  

Di Salvo Andò |

Nessun personaggio, come Giovanni Falcone, nella storia della Repubblica è stato tanto amato dalla gente comune e  contemporaneamente  mal tollerato nei palazzi del potere. Non c’è stato uomo delle istituzioni che abbia accumulato tante sconfitte quante ne ha accumulate Falcone. Eppure il suo prestigio in tutto il mondo era enorme. La FBI americana presso la sua sede centrale ha voluto collocare il busto di Falcone in grande evidenza, come segno di gratitudine per la sua collaborazione.

In tanti hanno combattuto Falcone, anche attraverso intrusioni nella sua vita privata. Negli anni 80 un presidente della Corte di appello di Palermo, che avversava Falcone perché convinto che il magistrato con le sue indagini patrimoniali avrebbe portato al collasso l'economia siciliana, giunse persino a sindacare la sua vita privata, richiamando lui e Francesca, la moglie, a comportamenti consoni a dei magistrati, che non potevano essere conviventi, ben sapendo che entrambi avevano in corso le pratiche per ottenere il divorzio e poi sposarsi. 

Alcuni colleghi e politici bollavano i metodi di indagine di Falcone come avventurosi ed antigarantisti, dettati da smania di protagonismo, dalla volontà di acquisire sempre più potere attraverso un coordinamento delle indagini affidato al famoso pool, che in tanti cercarono di distruggere, alla fine riuscendovi.

Falcone venne accusato di essere alla mercé dei pentiti, quando lui per primo ammoniva che la chiamata di correità, se non assistita da seri riscontri, rimaneva un equivoco indizio. 

Fu messo in croce per i maxiprocessi, che per taluni minavano i diritti della difesa. Lui spiegava che i maxiprocessi non erano una sua invenzione. Erano in qualche modo collegati alle norme che prevedono i reati associativi; ed erano ancor più necessari per le indagini riguardanti una criminalità di massa come quella di Cosa Nostra, un’organizzazione in cui le singole famiglie mafiose possono essere più o meno indipendenti l'una dall'altra, ma esiste un vertice, la commissione, che detta le regole di comportamento e li impone attraverso l'uso della forza. La Cassazione gli diede ragione.

Si  battè perché si procedesse ad un'attenta valutazione della professionalità dei magistrati, considerato che  «l’indipendenza e l’autonomia della magistratura rischiano di essere gravemente compromesse, se l'azione del giudice non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità, al servizio del   cittadino». Ciò gli provocò degli scontri con l’Anm, che vedeva in   ogni forma di controllo sulla professionalità un attentato all’indipendenza.

È un fatto che ogni sua candidatura ad incarichi dirigenziali venisse sistematicamente bocciata. C'era sempre un magistrato più anziano che veniva sollecitato a presentare domanda per potere fermare la domanda di Falcone. Fu  bocciato come consigliere istruttore quando esistevano ancora gli uffici istruzione, non fu accettato come procuratore di Palermo, non fu votato quando si candidò al Csm attraverso il Movimento per la giustizia che aveva contribuito a fondare. Si organizzò una vera e propria crociata quando propose la Superprocura antimafia perché accusato di volere creare un abito su misura per sé stesso.

Oggi finalmente sono in tanti a riconoscere che dopo le collaborazioni ottenute da Falcone da pentiti come Buscetta e Contorno la mafia non è stata più la stessa, soprattutto con riferimento al suo spaventoso potenziale di intimidazione.

Falcone seppe utilizzare la mentalità mafiosa per ottenere le collaborazioni, perché era in grado di penetrare nel sistema dei valori di riferimento della mafia, ed era convinto che la mafia dei corleonesi avesse stravolto  i valori tipici della cultura siciliana attraverso la commissione di delitti orrendi, infamanti. 

Gli si addebitavano rapporti troppo stretti con il ministro Martelli, che lo coinvolgevano eccessivamente nell’attività di indirizzo politico, quasi che il lavoro di un direttore generale al ministero non sia anche un lavoro di assistenza del ministro con riferimento all'attività di governo, soprattutto in un palazzo come quello di via Arenula dove le posizioni più significative sono tutte occupate da magistrati. 

I suoi nemici dell’antimafia politicante e parolaia, che avevano disseminato veleni nel Palazzo di Giustizia e nella società palermitana per screditarlo, lo esortavano a non abbandonare Palermo.

La verità era che l’antimafia di opposizione temeva la concorrenza di un’antimafia di governo, in grado di esprimere una grande capacità di mobilitazione dell’opinione pubblica. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

Di più su questi argomenti: