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Mafia, verdetto ribaltato: condannato a sei anni l’ex senatore D’Alì

Dopo due assoluzioni la sentenza della Corte d'Appello. Secondo l'accusa il politico trapanese era "a disposizione di Messina Denaro e di Riina"

Di Redazione |

L’ennesimo colpo di scena arriva a 16 anni dall’avviso di garanzia con cui la Procura di Palermo lo accusava di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex senatore di Fi Antonio D’Alì, protagonista di alterne vicende giudiziarie, è stato condannato a sei anni di reclusione dalla corte d’appello di Palermo, tornata a pronunciarsi sulle imputazioni contestate al politico dopo l’annullamento in Cassazione della prima sentenza d’appello. 

 La richiesta della Procura Generale, rappresentata dal pg Rita Fulantelli, era stata di 7 anni e 4 mesi, mentre la difesa del senatore ne aveva chiesto la piena assoluzione. D’Alì, inoltre è stato interdetto legalmente per tutta la durata della pena, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e dichiarato incapace di contrattare con la pubblica amministrazione per i prossimi tre anni. 

 Sessantanove anni, ex senatore di Forza Italia dal 1994 al 2018 è stato sottosegretario all’interno dal 2001 al 2006 e, secondo l’accusa, nella sua attività politica ed istituzionale avrebbe «mostrato di essere a disposizione dell’associazione mafiosa Cosa nostra e di agire nell’interesse dei capi storici come il latitante Matteo Messina Denaro e Salvatore Riina» e dell’organizzazione Cosa Nostra per la quale avrebbe messo a disposizione «le proprie risorse economiche e successivamente il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato».   Il procedimento nei confronti di D’Alì giunse in un’aula giudiziaria per la prima volta nel 2011 con il rinvio a giudizio chiesto dalla Procura Distrettuale Antimafia di Palermo. Nel maggio del 2012 iniziò il processo con rito abbreviato davanti al gup. I pm chiesero la condanna del potente politico trapanese a 7 anni e 4 mesi ma nel settembre 2013 il gup di Palermo mandò assolto il senatore per i fatti successivi al 1994 e dichiarò il non doversi procedere per prescrizione per i fatti antecedenti a quell'anno. La procura propose ricorso. 

 La corte d’appello si pronunciò nel settembre 2016 confermando la sentenza di primo grado: assoluzione per i fatti successivi al 1994, prescrizione per quelli precedenti. Nel gennaio 2018 la sentenza d’appello del 2016 venne annullata dalla Cassazione che ordinò il nuovo processo d’appello. Oggi la condanna che ribalta il primo verdetto. E stavolta i giudici non distinguono le condotte dell’imputato temporalmente. Cade lo spartiacque del 1994. Nelle prime due sentenze dopo quella data, i rapporti tra Cosa nostra e l’allora senatore non erano stati ritenuti provati. Per gli anni precedenti, invece, le accuse sarebbero state fondate ma sarebbero cadute in prescrizione. Un ragionamento che non impedì ai pm di chiedere per il politico la misura di prevenzione della sottoposizione all’obbligo di soggiorno. Misura prima applicata dal tribunale, poi annullata dalla corte d’appello che sostenne l’assenza dell’attualità della pericolosità del senatore che avrebbe cercato l’appoggio elettorale delle 'famiglie'.

Per l’accusa il politico avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella gestione degli appalti per importanti opere pubbliche, dal porto di Castellammare del Golfo agli interventi per l’America's cup che si svolse a Trapani. Dei presunti collegamenti di D’Alì con le cosche hanno parlato numerosi pentiti tra cui Antonino Giuffrè, Antonio Sinacori, Francesco Campanella e da ultimo il sacerdote N.T. e Antonino Birrittella, tutti ritenuti attendibili dai giudici d’appello. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA