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LE INDAGINI

Matteo Messina Denaro, dalla malattia ai covi fino ai “complici”: cosa sappiamo a una settimana dall’arresto

Il punto sul lavoro di pm e investigatori: le bugie degli «illustri sconosciuti», le tracce nei nascondigli e le “scatole nere” dentro i cellulari

Di Mario Barresi |

Quelle immagini – lui col montone e gli occhiali scuri, con due carabinieri ai lati, ma senza manette, mentre scende le scale della clinica La Maddalena – hanno fatto il giro del mondo. E sono già entrate nella cineteca della storia della lotta alla mafia.

Eppure sulla scena non scorrono titoli di coda. Anzi: è l’esatto contrario. Perché, a una settimana dall’arresto di Matteo Messina Denaro alla clinica La Maddalena di Palermo, l’unico dato  certo è che la partita – come dice il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia – «è appena cominciata». Proviamo a fare un “tagliando” all’inchiesta. Fra buchi neri e nuove piste.

“Segui la malattia”

La malattia del boss non era un segreto. Eppure il “certificato medico” arriva qualche mese fa, nelle prime intercettazioni dei familiari. Sarebbero state le sorelle di Messina Denaro (circostanza in un primo tempo confermata, poi minimizzata da fonti inquirenti) a mettere Ros e magistrati sulla strada giusta. Parlano di una persona che «sta male», smozzicano di interventi, esami e controlli, sussurrano di problemi agli occhi, ma anche di colon e di fegato.

Il boss «sta molto male»: sarebbe la conferma a uno “spiffero” già acquisito dai servizi segreti. Ed è su questo aspetto che si apre il primo interrogativo: è soltanto l’umana debolezza  del sanguinario capomafia stragista e dei suoi familiari di fronte al tumore a rompere la consegna dell’assoluto silenzio?

Al resto ci pensa il monumentale lavoro di scrematura del database nazionale dei malati oncologici. Decisivo l’incrocio col nome di un incensurato (seppur nipote di mafioso) di Campobello: Andrea Bonafede.

Il banco salta quando si scopre, grazie a celle telefoniche e telecamere di videosorveglianza, che il geometra era da tutt’altra parte (a Campobello, a passeggiare col cane fumando il sigaro) quando la sua identità veniva usata per l’intervento proprio nella clinica palermitana. Ed è proprio questo screening, di cui ci sono copiose tracce nel fascicolo d’indagine sull’arresto, una delle smentite più oggettive ai complottisti che sostengono la tesi dell’arresto “concertato”. Alimentate anche dalle perplessità sorte dopo la scoperta del selfie del capomafia con uno dei medici della Maddalena: all’epoca della giungla social, quante probabilità ci sono che il volto di quel distinto signore passi inosservato non tanto agli sguardi incuriositi quanto ai sofisticati software di riconoscimento facciale in possesso non soltanto dei reparti scientifici delle forze dell’ordine?   

Ma ci sono le fasi concitate del blitz di lunedì scorso, raccontate dai protagonisti: quando in clinica il computer dell’accettazione conferma l’arrivo di Bonafede, sembra davvero fatta. Ma il paziente, dopo aver fatto la fila per il tampone obbligatorio per sottoporsi alla cura, non sale al secondo piano per la chemioterapia. Esce e va verso il bar, nei pressi del quale è posteggiata la Fiat Brava. E accelera il passo, in un felpato tentativo di fuga, quando capisce di essere accerchiato. «È finita», è il sussurro di resa sciolto in un abbraccio col suo accompagnatore Giovanni Luppino. O siamo di fronte a un film di mafia con interpreti (sia fra i buoni sia fra i cattivi) da Oscar, oppure l’arresto è autentico.

Gli «illustri sconosciuti»

E qui si arriva al primo cerchio dei fiancheggiatori. Quelli della porta accanto, come «l’illustre sconosciuto» (per citare la definizione dei pm) che accompagna Messina Denaro in clinica. Luppino, il cui arresto per favoreggiamento è stato convalidato, non è il  semplice autista del «signor Francesco, cognato di Bonafede» come vorrebbe far credere. I suoi telefonini, la mattina del blitz, sono lasciati in modalità aereo. Sequestrati, come altro materiale molto interessante: oltre ad alcuni pizzini, 22  fogli manoscritti con nomi in codice ma anche con nomi e cognomi di alcuni medici, post-it con numeri di cellulari, 200 euro, la foto di una donna, biglietti da visita.

Ed è nel garage del figlio di Luppino che viene trovata l’Alfa Giulietta usata dal capomafia di Castelvetrano nell’ultimo anno di latitanza, dopo averla acquistata di persona in un autosalone di Palermo: 10mila euro in contanti e una Fiat 500 in permuta, il tutto a nome di una disabile di 86 anni,  Giuseppa Cicio. Che è la madre del vero Andrea Bonafede.

E qui si arriva al secondo complice. Le tracce di Bonafede, incensurato ancorché nipote di boss, sono ovunque.  E ciò non è dovuto soltanto al fatto che la sua identità sia stata presa da Messina Denaro. A sua insaputa? Non ci crede più nessuno, dopo che gli inquirenti sono arrivati alle numerose prove che non sono dell’alias. Tutti gli appartamenti in cui c’è traccia della presenza del boss sono legati al geometra.  Non tanto perché affittati a suo nome (in teoria potrebbe essere un altro effetto collaterale del presunto furto d’identità) quanto perché ci sono tracce fisiche della presenza di Bonafede. Che, ad esempio, avrebbe vissuto con la sua ex compagna fino a un anno fa al primo piano dell’immobile di via San Giovanni, dove nel garage è stato sequestrato il cosiddetto terzo covo. Quello in cui Messina Denaro avrebbe vissuto fino a giugno scorso. Affittato da Bonafede nel 2015. E ora trovato vuoto. A dare la chiave di quel che ha definito «un ripostiglio» (pieno di scatoloni, alcuni gioielli, pietre preziose e argenteria) è stato il proprietario dell’intero immobile: Errico Risalvato, fratello di un fedelissimo del boss condannato per mafia e a lungo indagato. 

La rete di complicità

I covi, ma anche le corsie d’ospedale. Questo è il secondo cerchio dei complici. Si parte dalla filiera della malattia, scorrendo montagne di documenti (e sentendo anche i diretti interessati, alcuni dei quali in verbali «piuttosto imbarazzanti») per capire quanto i medici fossero consapevoli di curare un boss latitante anziché un geometra incensurato.   Un filone dell’inchiesta vede fra gli indagati il primario di Oncologia medica del Sant’Antonio Abate di Trapani: fu lui a eseguire  l’esame del Dna necessario perché Messina Denaro potesse iniziare la chemioterapia dopo la scoperta del tumore al colon. La prima diagnosi intestata a Bonafede-Messina Denaro è firmata da Michele Spicola, medico patologo dell’Asp di Trapani, in servizio all’ospedale Vittorio Emanuele di Castelvetrano.  Ma l’iter sanitario del latitante poi si è spostato all’ospedale Abele Ajello di Mazara del Vallo dove il 13 novembre 2020 ha subito l’asportazione del tumore al colon. Poi l’ultimo passaggio alla Maddalena. I pm, in conferenza stampa, hanno escluso complicità della clinica. Ma lì dentro sono davvero tutti al di sopra di ogni sospetto? Verifiche in corso.

E  si stanno analizzando anche le posizioni di altri medici. A partire dall’altro indagato: Alfonso Tumbarello, 70 anni, medico di famiglia  in pensione: è lui che ha in cura Bonafede, è lui che firma decine di impegnative e ricette mediche per esami e farmaci, oltre che il certificato di «soggetto fragile» (il vero Bonafede non lo è) che danno una corsia privilegiata per le tre dosi di vaccino anti-Covid.  Molto conosciuto a Campobello, Tumbarello  sa bene chi è il vero Bonafede e non può averlo scambiato per il suo avatar mafioso. Quanta complicità consapevole c’è in questo comportamento? Appartenente alla loggia Grand Oriente d’Italia, il medico è stato sospeso dal gran maestro Stefano Bisi.

Un massone. Come chiunque (o quasi) conti davvero nel Trapanese. Come l’avvocato Antonio Messina, nelle cui abitazioni sono scattati controlli: una si trova di fronte la casa di Salvatore Messina Denaro, fratello del boss, l’altra è sua villa estiva del legale a Torretta Granitola, sul litorale di Mazara del Vallo. Messina fu condannato per droga negli anni 90. Assieme a lui erano imputati l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che per conto dei servizi segreti intavolò una corrispondenza col boss latitante.  

Le tracce dentro i covi

Ma il materiale più importante per il salto di qualità dell’inchiesta è quello sequestrato dentro i nascondigli di Matteo Denaro, l’ultimo dei quali in ordine di sequestro potrebbe avere anche dei tunnel sotterranei.

Al netto degli elementi di colore (i poster del Padrino e di Joker, le biografie di Putin e Hitler e via divagando), il bottino investigativo più interessante è nello scantinato di vicolo San Vito. Un insieme di foglietti e di post-it, mischiati ad altri documenti con dentro materiale definito «estremamente interessante». A partire da alcune sigle (ben pochi, a quanto pare, i nomi riportati per esteso), forse associabili ad altrettanti numeri di telefono; ma anche alcuni conteggi su «entrate e uscite», con altre note a margine. Con molti riferimenti recenti e altri passati, indietro fino al 2016.

E poi i viaggi. Una serie di “trasferte” – alcune all’estero: nel Regno Unito, in Sudamerica e forse anche in Grecia – fatte negli ultimi mesi da Andrea Bonafede come proverebbero alcuni biglietti aerei e ricevute di hotel. Movimenti anche in Italia (Roma e Genova), ma in questo caso ci sarebbe pure la presenza dell’ex fidanzata.

Le “scatole nere”

Le “scatole nere”, però, sono i cellulari che Messina Denaro aveva con sé. Sono gli stessi da cui i pazienti della clinica sostengono che il finto Bonafede ricevesse telefonate e scambiasse sms nelle chat di Whatsapp? Con chi era in contatto il capomafia negli ultimi tempi? Questo è un interrogativo-chiave. Assieme a un altro: come faceva, al netto dell’omertà di parte dei cittadini di Campobello, a convivere con la doppia identità falsa?

Andrea Bonafede per il servizio sanitario (compresi i medici che conoscono di persona il geometra-alias), ma con un altro nome di copertura per i compaesani: Franco. Che è riuscito a passare inosservato, per cinque  anni,  anche fra i vertici locali delle forze dell’ordine? Ma qualcuno, adesso ha cominciato a parlare. Più comodo, col senno di poi. Ma più che mai utile per capire tante cose.

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