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L'INTERVISTA

Mons. Paglia: «“Prendersi cura” la nuova frontiera della Chiesa: e non solo degli altri ma anche dell’ambiente»

A colloqui con il presidente della Pontificia accademia in occasione presentazione della la Carta dei diritti degli anziani che la Sicilia ha già adottato

Di Franca Antoci |

«Meno Rsa, più casa, più famiglia, più servizi. Ma soprattutto, un “nuovo umanesimo”, che comprenda al suo interno una nuova visione e un nuovo approccio agli anziani, che nel nostro Paese sono sempre di più e sempre più anziani». È il pensiero di monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, chiamato dal ministro della Salute, Roberto Speranza, un anno fa a guidare la Commissione per la riforma dell'assistenza per gli anziani non autosufficienti, che a un anno esatto dall'istituzione ha presentato la Carta dei diritti degli anziani. Carta che la Sicilia, prima regione in Italia, è pronta ad adottare come prima tappa di un sistema chiamato a cambiare dagli eventi e dalla lucida analisi dello stesso mons. Paglia, frutto della capacità di leggersi dentro per capire l’Oltre e condividerne il senso.

La sua ricchezza interiore rende chiaro il motivo della sua vocazione, ma vorremmo comunque chiederle: quali erano i suoi sogni di bambino e di adolescente e cosa le ha fatto decidere che la sua famiglia sarebbe stata l'umanità?

«Le mie origini sono in un piccolo paese del Lazio sud: Boville Ernica. La mia famiglia era di origini contadine, attaccata alla terra, al lavoro e alla vita cristiana. A casa mia viveva anche mio zio, l’arciprete del paese. Ero attratto dall’esperienza che vivevo da bambino in una chiesa ove la Messa della Domenica era un evento che raccoglieva tutto come una sola famiglia. Mi colpiva molto inoltre l’impegno – certo da bambino – per andare nel territorio povero delle campagne nell’immediato dopoguerra per aiutare i bambini nelle feste e nella preparazione al catechismo. In questa piccola esperienza vidi il mio futuro come prete. Non fu una ispirazione puntuale. Fu la maturazione – avvenuta anche molto presto – di una esperienza ecclesiale che sentivo bella per me e utile per gli altri. E decisi io stesso di entrare in seminario: avevo 10 anni. Certo, un bambino: eppure era chiara, allora, la mia scelta. E lì intravedevo la bellezza che l’intera umanità fosse come quella famiglia che vivevo in quel piccolo angolo di terra che era il mio paese. Ma era già il Mondo».

Le sue azioni e i suoi scritti, mostrano un profondo percorso interiore. Come si può e cosa concretamente fare perché dal seno materno alla nascita, dalla giovinezza alla vecchiaia si attraversi la vita nel rispetto di se stessi e degli altri?

«Penso che sia la famiglia la prima scuola di formazione e di educazione: alla socialità, al rispetto degli altri e di se stessi, alla fede. Lo diceva già Cicerone che ha dato della famiglia una definizione che a me sembra insuperata: “Familia est principium urbis, et quasi seminarium rei pubblicae”(si potrebbe tradurre: “la famiglia è il fondamento della città e la scuola della cittadinanza”). Certo è che la famiglia è il primo anello della indispensabile catena di trasmissione dei valori che tiene assieme le società e i popoli. Per questo la Chiesa insiste sul tema della famiglia come cellula-base della società e della socialità. Da qui si comincia il con-vivere. L’ho scoperto non solo nella mia vita da bambino e da giovane, ma lo vedo nella vita di tante famiglie che ho conosciuto e che ho seguito nel loro percorso. Anche quando abbiamo a che fare con “famiglie ferite”, resta dentro quell’anelito alla completezza, il bisogno di una vita piena. E la Chiesa è presente, vicina, accompagna, indica la strada, pur nelle nostre personali imperfezioni e pur nelle cadute della vita. Ma la speranza di migliorare è la prima virtù!»

Le pagine dei suoi libri specchiano ogni aspetto della quotidianità e spaziano dai piccoli ai grandi temi come aborto, divorzio, eutanasia, amori di genere e l'elenco è veramente lungo. In ognuno però il dialogo con Dio è linfa. Quanto il bisogno, l'ingiustizia, l'orrore della guerra possono portare verso Dio o piuttosto allontanarci sovrastati dall'idea che l'inferno è adesso?

«Non posso rassegnarmi all’idea che l’inferno ci sia “adesso” in tante parti del mondo. Penso che come persone e soprattutto come cristiani, seguaci del Vangelo, siamo legati ad un impegno di vicinanza agli altri, di responsabilità per offrire a tutti un mondo pacifico, giusto, fraterno. Questo richiede non solo vicinanza personale nelle crisi e nelle sofferenze ma anche concreta solidarietà nella forma di uno stimolo allo sviluppo solidale della società e che le istituzioni sentano anch’esse il compito di creare le condizioni perché la vita sia migliore. E lo dico dopo aver visitato nei giorni scorsi Haiti. Davvero ho visto con i miei occhi l’inferno sulla terra! Quando ci si scontra in diretta con queste realtà come quella che ho visto, sento crescere più forte dentro di me la determinazione che viene dal Vangelo: impegnarsi in maniera diretta, forte, con continuità, per sconfiggere quell’indifferenza che appare sempre più diabolica: sta distruggendo la vita del pianeta nelle persone e nell’ambiente». 

Presente, consapevole e protagonista di ogni momento storico della Chiesa e della società, non poche volte è stato personaggio scomodo perché il suo Io cattolico non dimentica mai il suo Io cristiano. Nell'ebook “Il crollo del Noi” (editori Laterza) pubblicato nel 2017, anticipa la grave crisi di solidarietà e il crollo dei legami umani che tre anni dopo convergerà nell'emergenza più acuta del nostro secolo: la pandemia. Quanto quest'ultimo anno ha mostrato la fragilità di un mondo costretto a rimodularsi?

«Lo shock è stato forte. Pensavamo, tutti, di essere sempre più sani e più in forma, invulnerabili e tonici, padroni del mondo grazie ai progressi della scienza e della tecnologia. Solo perché mettevamo i malati e i morti, i deboli e i vulnerabili, in una quarantena invisibile, tenendoli fuori dalla rappresentazione della vita che gode semplicemente se stessa. Ora tutti siamo come costretti a tenere fuori tutti: e ci ricordiamo improvvisamente di essere mortali, solo perché respiriamo. Non ci siamo presi cura della nostra vulnerabilità condivisa, e ora ci viene imposto di viverla nell’abbandono: per aiutarci, siamo costretti a separarci. L’individualismo che abbiamo spensieratamente coltivato, ritorna come punizione: stai da solo, se vuoi vivere. Ma da soli si sta male. E si muore di più. Dopo l’emergenza non possiamo proprio evitare di affezionarci nuovamente ad una convivenza umana che apprezza con stupore la bellezza della cura per la comunità, ad ogni costo. Alla fine resterà in piedi un solo grande tema: la fraternità universale. Siamo interconnessi. Siamo fratelli e sorelle. Non è solo biologia: la razza umana. È la sostanza della biologia. Da me dipendono gli altri e viceversa. È la lezione di questi giorni. Apprendere la lezione significa che i legami di fatto, debbono diventare scelta politica, sociale, economica ed anche spirituale. La “fraternità” che Papa Francesco ci ha ricordato con la sua Enciclica “Fratelli tutti” indica la strada che dobbiamo scegliere e percorrere con decisione ed anche fretta».

La morte, che tutti abbiamo sentito passarci accanto mai come ora, è ricorrente nei suoi libri come inscindibile dalla vita. Dove comincia e dove finisce la dignità del vivere e del morire?

«Si tratta di grandi sfide perché siamo di fronte a un cambiamento profondo di mentalità che attraversa la società civile italiana, soprattutto sui temi dell’eutanasia, del suicidio assistito, del farsi avanti di una visione individualista per cui vale e conta solo quello che io penso, scollegando ognuno di noi dalla relazione con gli altri. La Chiesa vede questi fenomeni, e ricorda a tutti che siamo legati gli uni agli altri. Che la vita è certamente di ciascuno di noi e Dio ce l’ha data per spenderla per noi e per gli altri. Non possiamo disporne a piacimento. Nessuno di noi è un’isola. La vera dignità è non sprecare la vita per nessun motivo. Questo significa vivere degnamente. La dignità pertanto non dipende semplicemente dalle condizioni sociali o di salute che ciascuno vive. Quel che è veramente degno è spendere la propria vita perché quella di tutti sia più bella. La Chiesa non deve né condannare né imporre. Essa deve aiutare tutti a sentirsi legati gli uni gli altri. E se c’è un’attenzione particolare da avere è quella verso i più deboli, i più poveri, i più abbandonati. Va riscoperto il senso anche della morte. Essa non annulla la vita. Semmai rappresenta il momento del passaggio da questa vita terrena a quella che va oltre, o meglio a quell’Oltre che tutte le religioni e le culture del mondo hanno sempre intuito e proposto. Non dimentichiamolo: quando noi stavamo ancora nelle palafitte, per i morti gli egiziani costruivano persino piramidi e i romani tombe straordinarie». 

Anello debole di una catena sbagliata, si sono rivelati gli anziani, vittime disarmate e disarmanti di un virus impietoso oggi e di un'indifferenza dolosa atavica che non riesce a integrarli in una fase di vita reale e li lascia stanziare nell'anticamera della morte. Non a caso è lei a guidare la “Commissione per la riforma dell'assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana” e a presentare la “Carta dei Diritti degli anziani e dei Doveri della società”, redatta dalla stessa Commissione istituita presso il ministero della Salute. Ha un senso che va al di là della casualità, che la prima regione ad adottarla sia la Sicilia?

«Prendersi cura è la “nuova frontiera” della Chiesa di domani. E nel “prendersi cura” non ci sono solo gli altri ma c’è anche l’ambiente e l’habitat. La natura, la città, la società umana devono convivere più felicemente, all’altezza delle odierne trasformazioni. E questo purtroppo non è ancora iniziato seriamente ad accadere. Il mondo non va abitato invano, consumandolo spensieratamente. E va consegnato migliore alle generazioni che vengono: l’indifferenza etica per la trasmissione della vita, in cui si sta insediando la nostra cultura secolare, è la nostra vergogna epocale. La testimonianza della fede non è guidata dall’interesse a compiacere una ideologia ecologistica o un comunitarismo di maniera. La voce del Papa non deve essere equivocata, su questo punto. La fede cristiana è chiamata in modo speciale a sostenere la bellezza del legame fra le generazioni, presidio affettivo di amicizia sociale e di fraternità civile. La trasmissione della vita dello spirito e l’iniziazione alla sua misteriosa promessa è il comandamento “Zero” della creazione, che precede ogni altro. La Sicilia è la prima regione a prendersi cura in concreto degli anziani nei termini che lei mi dice? Sono contento e mi auguro che una mentalità nuova si diffonda in tutto il nostro Paese».

 «Non stiamo vivendo un'epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d'epoca che la pandemia ha reso ancora più drammatico. Le parole della fede ci aiutano a vivere meglio questo tempo di prova». Scrive così in “Ricominciare. Le parole della fede nel tempo dello smarrimento” (edizioni Terra Santa – maggio 2021) e a leggerla la sensazione che ogni domanda abbia una risposta affievolisce la fiamma del dubbio e lenisce il fuoco della paura. Lei riesce a trasmettere speranza. Eppure avrà avuto un momento di cedimento rispetto alle certezze che soltanto la fede può cementificare, quando?

«Francamente no, non ho avuto cedimenti e neppure li ho adesso. Intendiamoci, non per mio merito. Ma unicamente perché il Vangelo è la forza che mi sostiene, sono confortato dal sostegno di Papa Francesco, dagli amici della Comunità di Sant’Egidio con i quali vivo da sempre, ed anche dai poveri il cui grido risuona nel mio cuore e mi tiene sveglio. Non dobbiamo tremare o avere paura perché le sfide sono epocali. La prima è quella di prendere coscienza che tutti i popoli della terra formano un’unica grande famiglia. E’ indispensabile riscoprire ciò che ci unisce tra tutti. Ogni sovranismo, ogni individualismo va bandito. La pandemia ci ha fatto scoprire che siamo tutti fragili e tutti legati gli uni agli altri. Questa interconnessione deve trasformarsi in scelta politica, sociale, economica e spirituale. La seconda sfida è comprendere che questa larga famiglia umana è chiamata a custodire e rendere bella l’unica “casa comune” che abbiamo: il nostro pianeta. In realtà la sfida una sola: comprendere che questa unica, grande famiglia, composta da tanti popoli diversi, non può vivere senza una fraternità tra tutti ed anche con la creazione. San Francesco di Assisi, resta un grande italiano e un grande credente che può ispirare la nostra società globalizzata: ci ha insegnato a chiamare “fratello” il vicino, il lupo e il sole e “sorella” la vicina, la terra e la luna. Lo ripeto: la fraternità è già nelle cose, deve diventare una scelta consapevole e una responsabilità condivisa». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA