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Omicidi-suicidio a Riposto e il caso permessi-premio, Ardita: «Anche chi uccide, dopo 26 anni, puo’ averli»

L'ex componente del Csm e già direttore generale dell’Ufficio detenuti del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), in organico alla Procura di Catania, dà una risposta a quella che, all'opinione pubblica, sembra una stortura 

Di Carmen Greco |

All’indomani del duplice femminicidio di Riposto la domanda che parte dalla strada è una sola. Se una persona è stata condannata all’ergastolo può avere permessi premio?  «Se l’ergastolo riguarda omicidi di mafia e il detenuto non collabora con la giustizia – risponde il magistrato Sebastiano Ardita, ex componente del Csm e già direttore generale dell’Ufficio detenuti del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), in organico alla Procura di Catania – sarebbe vietato in base ad una legge approvata dopo la strage di Capaci. Ma una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, recepita dalla Corte Costituzionale ha stabilito che ogni “automatismo” di legge nell’escludere un beneficio è incostituzionale. E perciò in ogni caso il giudice ha il dovere di verificare in concreto se il detenuto è meritevole del permesso. Si dovrebbe trattare però di casi abbastanza rari, rispetto ai quali lo stesso detenuto deve poter provare che non ha più nulla a che spartire con la mafia». 

Quanto è distante l’idea che l’opinione pubblica ha dell’ergastolo rispetto a quello che effettivamente rappresenta questa pena detentiva? «L’ergastolo per i reati diversi dalla mafia di fatto non esiste più. Chi uccide anche più persone per una lite o per una vendetta privata e poi in carcere tiene buona condotta, anche con l’ergastolo dopo 26 anni circa può ottenere la liberazione condizionale e, prima ancora, può avere permessi premio e misure alternative alla detenzione».

Come si valuta la pericolosità di un detenuto? «Non si può valutare su basi scientifiche, oggettive, come se si trattasse di fare un’analisi del sangue. Concorrono molti fattori, rispetto ai quali il rapporto con l’associazione mafiosa è solo uno degli sbarramenti, ma certamente quello principale. Il punto è che anche se si è interrotto il rapporto con la mafia un soggetto può essere ancora pericoloso individualmente. E per capire cosa passa nella testa di un ergastolano, se siano cambiati i suoi interessi e il suo carattere, occorre un’osservazione attenta e non formalistica, che parte proprio dalla sua condotta all’interno del carcere. E temo che gli elementi per questa valutazione non fossero completi. Perché mi rifiuto di pensare che non siano stati ben valutati».

A quali uffici giudiziari spetta dare il parere per un permesso premio? «I permessi vengono concessi dalla magistratura di sorveglianza che ha un compito difficilissimo e sta in mezzo a due fuochi: da un lato il rischio di sbagliare nel concedere un’opportunità a chi potrebbe commettere altri delitti; dall’altro l’accusa di essere insensibile si cambiamenti e non rispettare il principio di rieducazione. È certo che con il venir meno degli “automatismi”, le responsabilità e i rischi per i magistrati di sorveglianza si sono accresciuti in modo impressionante».

Mettiamo che sia stata accertata la “dissociazione” di un detenuto dal contesto criminale passato. Quali strumenti ha lo Stato per impedire un ripristino dei collegamenti con quell’ambiente una volta fuori? Esiste, o dovrebbe esistere, una “rete sociale” che verifichi tutto ciò? Quanto è carente in questo senso il sistema carcerario italiano? «Nel sistema italiano non esiste alcun sistema efficiente di controlli sulla vita di un condannato ammesso a benefici fuori dal carcere. Le verifiche vengono fatte in modo burocratico, sulla base di documenti e di sporadici colloqui (a volte anche telefonici) dagli uffici preposti che sono oberati dal numero di pratiche da seguire. Negli Usa invece esiste un vero e proprio dipartimento di polizia – il Probation Office – dotato di mezzi e di uomini che ogni giorno verificano la vita condotta dagli affidati: chi frequentano, se realmente lavorano, se fanno uso di droga e alcool, se maltrattano i familiari. Alla minima violazione delle prescrizioni imposte per mantenere il beneficio si torna in carcere. Le recenti riforme che in Italia hanno introdotto la messa alla prova e incrementato le misure alternative, in assenza di questa organizzazione, sono destinate a fallire miseramente, restituendo ai cittadini l’immagine di uno stato inefficiente che non sa difenderli dai criminali. Quello di Riposto è l’ennesimo caso, ma non vedo consapevolezza istituzionale e capacità di inquadrare quale sia il problema».

Gli istituti penitenziari italiani hanno gli strumenti per valutare se un detenuto ha davvero avuto un’evoluzione della personalità o, alla fine, conta solo il suo fascicolo? «Hanno questa possibilità se fanno un lavoro intenso sulle persone, se offrono opportunità di lavoro e trattamento, e se sono in grado di registrare i risultati. Ma in questo dibattito spesso ideologico occorre rimanere lucidi. Il carcere in molti casi può cambiare le persone e sarebbe un errore rinunciare alla rieducazione dei condannati per contrastare la follia di chi vuole i mafiosi assassini fuori dal carcere.

Come si fa a spiegare un episodio come quello di Riposto a chi, magari, ha un’aspettativa di giustizia? Casi come questi non affossano tutti i discorsi sulla possibilità di ravvedimento, di integrazione post carcere, di rieducazione? «È esattamente il problema che si dovrebbe affrontare. Ma l’istituzione penitenziaria – cui è demandato il compito di affrontare e risolvere i problemi principali – è da anni abbandonata a se stessa, chiamata a svolgere compiti impossibili e non agevolata da regole interne imposte da un pericoloso buonismo, coltivato nei salotti buoni e sostenuto con riforme velleitarie. Il trattamento e la rieducazione sono cose serie, impongono sacrificio per i detenuti che vogliono cambiare e presuppongono che in carcere comandi lo Stato». 

Tre provvedimenti che adotterebbe per migliorare la situazione? «Inizierei tornando a credere nel trattamento penitenziario e nella rieducazione, che devono prendere il posto del lassismo, dell’autogestione e dell’indisciplina presentati come una conquista dei diritti dei detenuti. Per fare ciò punterei sugli operatori penitenziari, dando loro più sicurezza in se stessi e forza nella loro azione. Il carcere civile, che mette insieme rieducazione e sicurezza, si può realizzare solo grazie a loro. È ingiusto che se il sistema tracolla – per anni di trascuratezza nella gestione politico-amministrativa – la colpa si scarichi su coloro che vengono abbandonati da quello Stato che hanno servito con generosità».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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