ADRANO
Operazione Primus, nelle intercettazioni le regole del vecchio boss che amava le armi: «Poi gli spariamo»
Ieri mattina gli interrogatori di garanzia: Alfio “Alfredo” Di Primo ha risposto al gip
I metodi sono quelli della vecchia mafia. Sanguinaria e pronta a ricorrere alle armi al primo “errore”. Ma d’altronde Alfredo Di Primo – tutti lo chiamano così ad Adrano e non Alfio che è il suo nome all’anagrafe – ha trascorso 27 anni in gattabuia per espiare la condanna per alcuni omicidi. Per la procura etnea è lui l’ultimo reggente del clan Scalisi di Adrano, articolazione dei Laudani di Catania. Da venerdì però è tornato dietro le sbarre: è stato infatti arrestato dalla polizia nell’ambito dell’operazione Primus.
Che lo scettro sarebbe stato suo non appena avesse messo fuori i piedi dal carcere lo sapeva bene Salvatore Giarrizzo, che per un periodo è stato un braccio operativo della cosca per volere di «Salvatore Calcagno» nel 2017. Nel 2020, quando sceglie di diventare collaboratore di giustizia dopo essere stato catturato nel blitz “The King”, lo racconta anche ai magistrati della Dda etnea: «Finché non sarebbe stato scarcerato Alfredo Di Primo, avrei dovuto aiutarlo (Calcagno, ndr) nella gestione». Quando nell’estate del 2021 diventa un uomo libero Di Primo, cognato del capomafia al 41bis Giuseppe Scarvaglieri, i poliziotti gli mettono gli occhi addosso e non lo mollano più. E immediatamente trovano i riscontri. Le intercettazioni sono inequivocabili.
Di Primo però è immediatamente consapevole che le cose sono cambiate rispetto a 30 anni prima. A un “sodale” il vecchio boss spiega che sta studiando «su tutti i fronti» e sta analizzando «i meccanismi». L’analisi di marketing però ha creato un ritorno al passato nel modus operandi, anche se è riuscito a portare alla sua corte un gruppo di giovani soldati («Millennials», li hanno definiti i pm in conferenza stampa).
Le conversazioni
Da più di una conversazione viene fuori il suo «ruolo di vertice». Un affiliato degli Scalisi lo dice chiaramente: Di Primo è «la famiglia». A un certo punto arriva al capo adranita l’invito a incontrarsi di Orazio Scuto ‘u vitraru”, uno dei volti storici della cupola dei Laudani già condannato nel processo Report e prima ancora nel maxi blitz Vicerè del 2016. Un chiaro segno della sua “autorità” all’interno dell’organigramma dei “Mussi i ficurinia”.
Di Primo è intollerante nei confronti di chi non riga dritto. In una discussione riguardante la riscossione di 25.000 euro versati da un imprenditore, l’esattore avrebbe ritardato a dare la percentuale spettante al boss. Discutendo con un componente del clan, Di Primo ipotizza una ritorsione: «Poi ci spariamo… gli ammazziamo il cognato». L’adranita è un amante delle armi: da quello che emerge in un’intercettazione è disposto a pagare «50.000 euro» a un catanese «per delle pistole».
Di Primo, ieri, ha affrontato l’interrogatorio di garanzia davanti alla gip Marina Rizza e ha risposto alle domande. Gli altri 20 indagati, tranne Claudio Maccarrone che ha fatto delle dichiarazioni spontanee, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA