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“Pierino”, la peste amica delle toghe: così Amara ha esportato il sistema Siracusa

Di Mario Barresi |

«Non sono io, con lui non c’entro nulla», continuava a precisare – scandalo dopo scandalo – il povero Pietro Paolo Amara, avvocato del foro di Siracusa e noto galantuomo. Ora non c’è più bisogno di difendersi da una quasi omonimia pericolosa. Perché il ben più celebre Piero Amara, anche dopo qualche ospitata tv in stile Luca Palamara, sanno tutti chi è.

Prima che il rischioso piacere di conoscerlo fosse riservato ai potenti – magistrati, politici e manager soprattutto – “Pierino” era un orgoglioso patrimonio della sua Augusta. Dove per quasi tutti resta ancora «’u figghiu di Pippo Amara».

Socialista doc, sindaco della città delle ciminiere – quasi una ventina di procedimenti penali, una sola condanna per minacce a pubblico ufficiale – iniziò il figlio Piero ai riti del potere. Metodico “archivista” di dossier in stile Antonello Montante ante litteram, Amara Senior insegnò al figlio che nell’arte del comandare bisogna farsi amici i magistrati. Gli stessi che si accanirono su Massimo Carruba, ex sindaco di Augusta, “reo” di essere nemico degli Amara, condannato a un calvario giudiziario (mafia e concussione) lungo 10 anni prima di essere assolto con tante scuse.

Fu il prodromo del “sistema Siracusa”. Un modello tanto semplice quanto collaudato: quella «incessante attività di raccomandazione, persuasione e sollecitazione» (che il gip di Potenza attribuisce ad Amara sui membri del Csm e politici per favorire la nomina di Carlo Maria Capristo a Taranto) è la stessa di tante altre volte.

Un copia&incolla, mutando i nomi, le città e le cose in palio. Ma a incassare («lauti compensi» come i 90mila euro di parcelle per l’ex Ilva, o soltanto credito di fiducia da spendere in futuri affari) è sempre lui, Amara. Con un metodo che è l’export, sul “mercato” nazionale, di quanto sperimentato in Sicilia. Frequentazioni, viaggi e comparaggi con i magistrati; legami professionali o societari con i figli dei magistrati. Per ottenere, in cambio delle carezzevoli (e talvolta profumate) attenzioni, un’immunità giudiziaria per sé e gli amici o magari indagini on demand a carico dei nemici.

È la sceneggiatura di vicende arcinote: dal verminaio di Siracusa con l’ex pm Giancarlo Longo (svelato grazie agli anticorpi della magistratura sana: un esposto di 8 degli 11 pm) alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato, passando per il depistaggio sull’inchiesta Eni e per la piccola, ma fortemente simbolica, mazzetta per far ripetere le Regionali in un pugno di seggi del Siracusano. In mezzo anche storie meno conosciute al grande pubblico, come una per cui sotto il Vulcano ci si accalora ancora oggi. Accadde che due calciatori del Calcio Catania, Gianluca Falsini e Armando Pantanelli, denunciarono la società per mobbing. E poco dopo arrivò la punizione “divina”: indagati entrambi, a Siracusa, per una vicenda di calcioscommesse dalla quale sarebbero usciti puliti, dall’allora pm Maurizio Musco, poi rimosso dalla magistratura. Chi era il legale del presidente Nino Pulvirenti? Amara, ça va sans dire.

Lo stesso “Pierino” che ad Augusta ricordano per il cervello fino, ma anche per i piedi buoni. Tanto da sfiorare, lui che giocava da regista (come sempre) l’ingaggio nelle giovanili della Juventus prima di appendere le scarpette al chiodo: liceo Megara e Giurisprudenza a Catania, prima di entrare nel rinomato studio etneo del professor Giovanni Grasso. Lo stesso che l’avvocato dell’Ilva, Angelo Loreto (più volte in contatto con Amara nelle carte dell’ultima inchiesta di Potenza), racconta ai pm di aver consigliato, senza riscontro, proprio a Capristo per difendersi in due indagini a Messina legate a quello che il magistrato, ormai nei guai, addita come il «millantatore di Amara».

L’ultima frittata è fatta. E gli schizzi d’olio arrivano ovunque. Grazie anche a Filippo Paradiso, poliziotto arrestato, definito dal gip il «relation man» di Amara. Che lo conobbe quando era assegnato al ministero dell’Agricoltura retto allora dal siciliano Saverio Romano. Paradiso è sempre al posto giusto nel momento giusto: nella segreteria di Matteo Salvini nel Conte 1, con il sottosegretario Carlo Sibilia nel Conte 2. «Nella sua vita la mattina si alza e parla con tutti i componenti del Csm, dal primo all’ultimo», rivela ai pm Giuseppe Calafiore, storico socio di Amara, “Escobar” su WickrMe, un sistema di messaggistica che utilizza algoritmi di crittografia militare, in cui l’avvocato di Augusta si faceva chiamare “Peter Pan”.

È Paradiso che presenta la presidente del Senato Elisabetta Casellati (che smentisce di aver mai incontrato Amara), allora membro laico del Csm, a Capristo, ed è sempre lui, con Amara, a stilare l’elenco di chi contattare per “spingere” la nomina del magistrato. Lo mette a verbale nel luglio del 2020 lo stesso Calafiore: oltre a Palamara (è qui c’è la crasi del PalAmara: due sistemi in uno), Massimo Forciniti, togato del Csm, Paola Balducci, consigliere laico, l’ex ministro dem Francesco Boccia e l’ex sottosegretario Luca Lotti, l’imprenditore Andrea Bacci, vicino alla famiglia Renzi, il magistrato parlamentare Cosimo Ferri, «incontrato tramite ed in presenza di Denis Verdini».

Tutti estranei alle indagini. Eppure tutti nel frullatore da cui fuoriesce una melassa grigia dove non sempre si distinguono i buoni e i cattivi. È lo stesso metodo delle rivelazioni, tutte da verificare, sulla cosiddetta “loggia Ungheria” che, secondo il pentito Amara unirebbe «giudici, avvocati, forze dell’ordine, alti dirigenti dello Stato». Rivelazioni generiche, forse vendette a orologeria, eppure tali da terremotare diverse Procure e il Csm.

È il postulato, e allo stesso tempo il risultato, del sistema Amara. Esportato, come il petrolio sotto le ciminiere della zona industriale, da Siracusa al resto del mondo. Ma il manuale delle istruzioni, in fondo, è lo stesso da sempre. E prevede che gli ingranaggi decisivi siano proprio i pezzi guasti. Togati, spesso.

Twitter: @MarioBarresi

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