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Processo Picaneddu, nella motivazioni della sentenza l’eredità mafiosa dei Santapaola nel quartiere

La linea dinastica dei boss, punizioni per chi trasgredisce le regole d’onore e la gestione delle case da gioco

Di Laura Distefano |

«È possibile che chi patteggia la pena possa essere messo fuori dalla carta degli stipendi». Una regola di Cosa nostra che pochi conoscono. Ma che il pentito Antonio D’Arrigo, detto Gennarino, qualche anno fa ha rivelato ai magistrati e che è finita nelle pagine delle motivazioni della gup Marina Rizza nel processo abbreviato Picaneddu. Ci «sono errori commessi» che gli uomini d’onore non perdonano e quindi meritano di «essere puniti». Il patteggiamento è considerato, ma solo dai vecchi boss, alla stregua di un cedimento. E dopo il processo Orfeo (blitz del 2017) due soldati del gruppo santapaoliano di Picanello – ha raccontato ancora il pentito – avrebbero subito «la punizione» proprio per aver avuto accesso a una pena patteggiata.

Il codice del… disonore

Ma come dimostra, oltre un secolo di storia criminale della mafia, il codice d’onore molte volte è carta straccia. Sarebbe vietato uccidere le donne e i bambini. E la lista di sorelle, mogli, fidanzate, madri e figli ammazzati dai killer di Cosa nostra è infinito. Infatti, non è un caso, che Pino Arlacchi titolò il suo libro – tratto dalle dichiarazioni del collaboratore Nino Calderone – gli Uomini del Disonore.

Le oltre 160 pagine delle motivazioni della gup sono state deposita da qualche settimana e cristallizzano l’affermazione del potere mafioso nel quartiere al confine con Ognina da oltre 30 anni. E dobbiamo partire dal processo Orsa Maggiore, bibbia giudiziaria delle vicende dei Santapaoliani, per tracciare la linea di successione che si completa fino ai “giorni nostri” proprio grazie alle dichiarazioni di D’Arrigo, ex militare della cellula di Picanello. Partiamo dai nomi “illustri” degli anni 90 dello scacchiere mafioso, Carletto Campanella (in carcere) e i fratelli Cristaldi. Poi in Orione 5 si comincia a definire la reggenza di Giovanni Comis, che è tornato a “governare” dopo la sua scarcerazione nel 2013 (prima le redini le ha avute Lorenzo Pavone poi coinvolto nell’operazione Fiori Bianchi) fino al suo arresto nel 2017 in Orfeo. Il vecchio boss – da tempo a piede libero – è citato anche nelle pagine della sentenza, perché nel processo Picaneddu è imputato per intestazioni fittizia relativamente – tra le altre cose – a una casa discografica.Tra gli imputati che impugneranno il verdetto e quindi attendono con trepidazione l’apertura del processo d’appello ) i capi che avrebbero (la sentenza non è definitiva, ndr) diretto nell’ultimo periodo il gruppo di Picanello, «quartiere che è stato scelto da Vincenzo Santapaola – figlio di Nitto – come sua residenza», ha raccontto l’ex reggente di Cosa nostra Santo La Causa.

La linea di successione

Questa la linea di successione del gruppo “Picaneddu” secondo il pentito Gennarino: «Quando entrai nell’associazione nel 2006, il gruppo era retto da Saro Tripoto e Santo Tudisco, dopo l’arresto di Tripoto nel 2009, nel blitz Summit, prese il suo posto Santo Tudisco e dopo l’arresto di quest’ultimo, dal 2010 Lorenzo Pavone ha retto fino al suo arresto nel 2013. Il posto di responsabile del gruppo è stato quindi preso da Giovanni Comis dopo la sua scarcerazione nel 2013. Comis ha mantenuto la reggenza fino al suo arresto con l’operazione Orfeo del gennaio 2017. Per un breve periodo tra Pavone e Comis ha tenuto la responsabilità del gruppo Nino Alecci, mentre la cassa del gruppo e la carte delle entrate e delle uscite la teneva Marco Brischetto (che teneva anche la carta degli stupefacenti), quella delle estorsioni era detenuta da Armando Pulvirenti e Franco Sansone, Dopo l’arresto di Comis – continua il verbale – per un breve periodo hanno preso la reggenza Giuseppe Russo, detto il giornalista o l’elegante (imputato) ed Enzo Dato (imputato), all’epoca latitante. Dopo pochi mesi la reggenza è stata affidata a Melo Salemi (imputato)». Su quest’ultimo, reo confesso ma che ha negato di comandare, la giudice non ha dubbi sul ruolo apicale «che trova pieno riscontro nelle conversazioni intercettate da cui emerge rispetto e autorevolezza». Quindi, per la gup «è condivisibile la qualifica di capo».

Il galateo mafioso

Una mafia che per certi versi guarda ad alcune etichette del galateo mafioso, come il saluto con il bacio in bocca. I carabinieri, durante le indagini, hanno immortalato il tocco a fior di labbra tra Enzo Scalia (descritto dalla gup con «lo status di socio anziano») e Giuseppe Russo (considerato la lunga manus di Enzo Dato durante la latitanza).

Ma da dove arrivano i soldi sporchi? Droga, estorsioni, ma D’arrigo ha parlato anche degli «incassi di una casa da gioco clandestina che si trova in una villetta a Picanello e che è stata gestita da Davide Battiato, Nino Alecci, Franco Sansone». Nella villetta «si gioca a chemin e alla zecchinetta e vengono giocatori da tutti i quartieri di Catania». Una delle bische (mafiose) più gettonate.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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