Contenuto riservato ai membri
Catania
Sparatoria in viale Grimaldi, pentiti inchiodano due “cappelloti”: «C’erano pure loro»
Procura e carabinieri continuano a indagare sullo scontro a fuoco - con due morti - fra “cursoti milanesi” e “cappelloti”
«Quel pomeriggio in viale Grimaldi c’erano anche “Peppe di Palagonia” e “Giovanni cammisa”: indossavano guanti neri ed erano entrambi armati, tanto è vero che hanno preso parte alla sparatoria del viale Grimaldi 18 che ha visto contrapposti i “cursoti milanesi” e una nutrita pattuglia di affiliati al clan Cappello». Sono scattati blitz e condanne, ma i magistrati della Procura distrettuale (in testa l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Alessandro Sorrentino) e i carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale non si sono mai ritenuti appagati dai risultati raggiunti: hanno continuato a lavorare alacremente sul caso e oggi, a distanza di oltre tre anni da quei fatti, hanno ottenuto un nuovo provvedimento restrittivo che il Gip Carlo Cannella ha emesso nei confronti di due presunti componenti del gruppo dei “cappelloti”. Si tratta, per l’appunto, di “Peppe di Palagonia”, al secolo Giuseppe Auteri, di 42 anni; e di “Giovanni cammisa”, ovvero Giovanni Agatino Di Stefano, stessa età. Avrebbero fatto parte del gruppo di almeno sedici persone – ma gli investigatori sospettano che quel pomeriggio a dirigersi su uno sciame di scooter di grossa cilindrata verso il viale Grimaldi fossero molte di più – che, armate di tutto punto, si era messo sulle tracce dei “milanesi” guidati da Carmelo Di Stefano (soltanto omonimo di “cammisa”), con l’intento di lavare sotto una pioggia di piombo una serie di sgarri di cui il boss di quella frangia dei “cursoti” e i suoi fedelissimi si sarebbero resi responabili. Dopo la scarcerazione del Di Stefano, infatti, l’aria nelle zone del viale Mario Rapisardi e del corso Indipendenza era diventata pesante: col “capo” di nuovo a piede libero, infatti, i “milanesi” avevano ripreso quota e per tale motivo si erano messi in testa di chiarire agli antagonisti che in quell’area della città erano sempre loro a dover comandare.

Numericamente più forti, i cappelloti non si sarebbero fatti intimidire e così, dopo il pestaggio di un buttafuori vicino al clan Cappello all’esterno di un locale della riviera, andarono a cercare il responsabile di quell’azione violenta – il figlio di uno dei fedelissimi del Di Stefano, Roberto Campisi – per restituirgli pan per focaccia. Lo scontro fisico avvenne in un pub di via Sangiuliano ma il giovane riuscì a cavarsela con qualche livido e quella stessa notte – era il 7 agosto del 2020 – personalmente o attraverso terzi sforacchiò a pistolettate la saracinesca (ma c’è chi dice un condizionatore) di un centro scommesse del Passarello di pertinenza di Salvuccio junior Lombardo, uno degli emergenti – anche per pedigree – proprio dei Cappello. Non era tutto, perché proprio in quei giorni si era consumato un altro scontro diretto: il figlio di Carmelo Di Stefano era entrato in conflitto con Gaetano Nobile, titolare di più attività in via Diaz, imparentato con diversi cappelloti storici. Fra i due c’erano state delle scaramucce anche per via di una ragazza che lavorava nel negozio di telefonia del Di Stefano e Nobile, con fare sprezzante, avrebbe detto al giovane che se voleva parlare con lui doveva presentarsi armato e, in altra occasione, «casomai mi mandi tuo papà a spararmi».
Carmelo Di Stefano non sparò al Nobile ma, affiancato da alcuni fedelissimi, andò a picchiare l’esercente (a sua volta sostenuto da due guardaspalle) a domicilio, ricordandogli che lui lì era «ospite» e che presto l’avrebbe fatto sloggiare. In quelle ore le fibrillazioni aumentarono, un appuntamento per ricomporre la frattura andò deserto e i “cappelloti” l’8 agosto del 2020 decisero di dare una lezione ai “milanesi”: «Li dobbiamo scassare», avrebbe detto Salvuccio junior. Ma i “milanesi” seppero per tempo di quel corteo di scooter che stava arrivando e si fecero trovare “pronti”, dando vita a quella sparatoria che provocò feriti sui due fronti e costò la vita a Enzo “negativa” Scalia e Luciano D’Alessandro.