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Strage Borsellino, dai verbali del Csm, oggi pubblici, alcune delle verità “scomode”

I giorni delle polemiche infuocate a palazzo di giustizia di Palermo che precedettero e seguirono la strage di via d’Amelio trovano un’eco drammatica nelle testimonianze di 19 magistrati e di Maria Falcone.

Di Redazione |

I contrasti con Giovanni Falcone sulla gestione delle inchieste più importanti, le spaccature all’interno della Procura con otto sostituti che chiedono un capo più «autorevole», le carenze dei sistema di sicurezza per i magistrati più esposti, l’isolamento di Paolo Borsellino. I giorni delle polemiche infuocate a palazzo di giustizia di Palermo che precedettero e seguirono la strage di via d’Amelio trovano un’eco drammatica nelle testimonianze di 19 magistrati e di Maria Falcone. I verbali di quelle audizioni, che si tennero davanti al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sono diventati ora pubblici, assieme ad alcune parti «riservate», e tracciano un quadro di tensioni che scossero gli uffici giudiziari di Palermo tra le due stragi in cui morirono prima Falcone e dopo 57 giorni Borsellino. 

Il principale obiettivo delle critiche era il procuratore del tempo, Pietro Giammanco, che si è dovuto difendere da critiche molto forti su una gestione dell’ufficio improntata a linee di cautela in alcuni processi e accentramento di poteri decisionali. Con Giammanco il Csm sentì il procuratore generale Bruno Siclari, gli aggiunti Vittorio Aliquò e Elio Spallitta, i sostituti procuratori Alfredo Morvillo (cognato di Falcone), Ambrogio Cartosio, Claudio Corselli, Maurizio Conte, Lorenzo Matassa, Francesco Lo Voi, Ignazio De Francisci, Roberto Scarpinato, Egidio La Neve, Giovanni Ilarda, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Giuseppe Pignatone, Teresa Principato, Gioacchino Natoli, Guido Lo Forte, Antonella Consiglio, Annamaria Palma, Antonio Napoli, Vincenza Sabatino, Salvatore Pilato, Maria Vittoria Randazzo, Agata Consoli, Luigi Patronaggio, Maurizio De Lucia, Salvatore De Luca, Vittorio Teresi. I magistrati risposero alle domande dei consiglieri del Cam rappresentando un quadro di scontri e di contrapposizioni già largamente emerso nei processi per le due stragi. 

«Non ho nulla da rimproverarmi». E' molto netta la linea di Pietro Giammanco, capo della procura di Palermo tra le due stragi di Capaci e via D’Amelio. Giammanco era stato chiamato dal Csm il 28 luglio 1992 per un’audizione. Rispetto alle contestazioni di un gruppo di otto sostituti, che gli attribuivano una gestione discutibile e un’emarginazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il procuratore sostenne di avere «fatto interamente il mio dovere in ogni campo». Negò di avere creato ostacoli a Falcone e Borsellino riducendo i loro poteri di coordinamento, specie per le inchieste più delicate, e rivendicò di avere chiesto in forma molto decisa una maggiore tutela per i magistrati più esposti. Il verbale con le dichiarazioni di Giammanco è tra gli atti decretati dal Csm a trent'anni dalle stragi. «I miei rapporti con Giovanni Falcone – ha assicurato – erano più che ottimi. Capivo quanto sarebbe stato indispensabile il suo apporto di competenza, di esperienza, di prestigio». Nel corso della stessa audizione Giammanco presentò una richiesta di trasferimento in Cassazione che venne poi accolta. 

Dopo l’attentato di via D’Amelio alcuni magistrati della Procura avanzarono la previsione di altre stragi, che effettivamente si verificarono. Ne parlò trent'anni fa l’allora pm Roberto Scarpinato durante un’audizione di magistrati palermitani promossa dal Csm. Tra le carte ora desecretate c'è anche il verbale delle dichiarazioni di Scarpinato finito tra gli atti più «riservati». La particolare riservatezza assegnata al verbale si spiega con il racconto, fatto da Scarpinato, di una riunione improvvisata in Procura qualche ora dopo l’attentato. Alcuni magistrati manifestarono il convincimento (indicando dunque una pista da tenere in quel momento riservata) che ci sarebbero stati altri attacchi della mafia. Previsione che si rivelò fondata. Il piano criminale si scatenò nel 1993. Il primo segnale venne lanciato il 14 maggio: un’autobomba esplose in via Fauro a Roma subito dopo il passaggio dell’auto di Maurizio Costanzo. Due settimane dopo, il 27 maggio, a Firenze venne fatto saltare in aria un furgone imbottito di esplosivo davanti all’Accademia dei Georgofili: cinque morti e 48 feriti. Il 27 luglio altre due bombe esplosero davanti alla basilica di San Giovanni Laterano a Roma e in via Palestro a Milano dove morirono quattro persone. Il giorno dopo, il 28 luglio, altra esplosione davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro, a Roma. Dopo una mancata esplosione davanti allo stadio Olimpico a Roma, il 14 aprile 1994 venne trovato esplosivo lunga una strada dove doveva passare il pentito Totuccio Contorno. Da dove veniva la previsione di questi altri attentati? Scarpinato diede due indicazioni. La prima: Tommaso Buscetta aveva parlato di una mafia che cercava di fermare il contrattacco dello Stato a suon di bombe. L’altra ipotesi leggeva nelle dinamiche mafiose la formazione di una componente che cercava di prendere il sopravvento sul gruppo egemone di Totò Riina e dei corleonesi. In ogni caso era subito apparso chiaro che le stragi avrebbero avuto varie repliche. 

Giovanni Falcone era un «magistrato nel sangue», non un politico, e andò via da Palermo non per abbandonare «la trincea» ma perché «ormai» lì non poteva lavorare come voleva. Così 30 anni fa Maria Falcone aveva parlato delle confidenze del fratello, in un’audizione al "Gruppo di Lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata" nel luglio 1992, pochi giorni dopo l’attentato a Paolo Borsellino, e il cui verbale è stato pubblicato dal Csm, assieme a quello dei magistrati ascoltati, a 30 anni dalla strage di via D’Amelio.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA