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Tangenti sanità, i finti paladini e la forma dell’acqua: ecco perché Musumeci c’è cascato

Di Mario Barresi |

Antonio Candela, l’autoproclamato «capo condominio della sanità» bramava con i suoi compagni di merende e mazzette affinché Nello Musumeci gli togliesse «dai coglioni» quel «bambino» (Ruggero Razza), di cui pretendeva il posto di assessore come ricompensa morale per l’onta di non essere stato nominato al vertice di un’ Asp. Poco dopo Candela, fulgentissima icona della legalità lumiesco-crocettiana, dopo un paio di incarichi sfumati, sarà chiamato – proprio da Musumeci e da Razza – a guidare, con pomposa responsabilità, la task force sull’emergenza Covid. E già questa, di per sé, è la trama di una beckettiana commedia dell’assurdo. Una goduria, a teatri chiusi.

Ma il punto, purtroppo, non è questo. Perché magari saremmo tentati di riderci anche un po’ su – leggendo le pagine di questo ennesimo Romanzo Criminale tutto siciliano – e persino di tirare il fiato. La quarantena e i divieti, la curva e i contagi, i dpcm e le autocertificazioni. Ma sì, il lockdown è davvero finito: siamo tornati alla normalità. Quella delle mazzette e dei traccheggi. Eppure, proprio ai tempi dell’ultimo colera, l’inchiesta “Sorella Sanità” di Palermo ci avvinghia – e non c’è distanziamento o mascherina che tengano – a un’amarissima consapevolezza.

Ci sono ricascati. Ci siamo ricascati. Infettati dalla pandemia della corruzione, in Sicilia tanto (e da così tanto) diffusa che dovrebbe esserci l’immunità di gregge. E invece no. La consuetudine delle tangenti, soprattutto in sanità, è come un inutile test sierologico: ti dice soltanto sei hai gli anticorpi, non se sei malato. Del resto, l’ordinanza del gip di Palermo ci racconta scena di un film già visto. A partire dal blockbuster delle nomine nella sanità. Secondo il gip emerge «la nefasta ingerenza politica, del tutto avulsa da logiche meritocratiche, nelle procedure di designazione dei direttori generali delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere siciliane da parte della Giunta regionale, per come espresso dagli stessi indagati». Gianfranco Miccichè, non indagato, viene citato più volte nell’ordinanza. In una, in particolare, in cui si parla della scalata di Fabio Damiani (arrestato) al vertice dell’Asp di Trapani: «Chi c’è dietro questa operazione lo sappiamo solo noi e Gianfranco. Il pupo è Turano… eee…. u puparo è Miccichè» dice l’imprenditore arrestato Salvatore Manganaro. «… Ma siccome siamo in tre a saperlo tu si u quarto che a Trapani dietro Turano e Lumia ce l’ha messo Miccichè con un teatrino palermitano». Il presidente dell’Ars dice di non conoscere Damiani e diffida preventivamente i giornalisti dallo scrivere che lui o il fratello Guglielmo, siano gli sponsor della nomina.

Inoltre, sempre nel copia&incolla delle sceneggiature non inedite, c’è il coinvolgimento di Carmelo Pullara (indagato, ma a sua insaputa). Annotiamo soltanto l’ennesimo componente (recidivo) dell’Antimafia regionale con guai giudiziari. Stanno diventando molto meno dei Dieci Piccoli Indiani. Claudio Fava sarà pure un solista, ma corre il rischio di restare da solo. Ma c’è un altro virus – più recente, eppure tutt’altro che sconosciuto – contro il quale non si riesce a trovare il vaccino, neppure dopo le tante vittime mietute dai cosiddetti “sistemi” Saguto e Montante: il finto eroismo dei finti eroi della legalità. Primo indizio. Fra gli indagati (ai domiciliari) c’è Salvatore Navarra, grande capo della Pfe, pigliatutto negli appalti delle pulizie in Sicilia. Azienda fondata dal padre Totò, imprenditore self-made man fra gli indagati nel secondo filone di Caltanissetta su Antonello Montante, con l’ipotesi di reato (a proposito: a che punto è quest’inchiesta?) di essere fra i finanziatori occulti della campagna elettorale di Crocetta nel 2012. «Si scanta perché… il caso vuole, Ivan me lo raccontava, che c’è Milano piena [inc] che si aspetta a inizio anno delle nuove uscite su… sul papà della situazione Montante, eee gli gira questa voce, gira questa voce», dice Manganaro a Damiani parlando di Navarra Jr. Ma i due interlocutori evocano con profondo rispetto la vicenda giudiziaria dell’ex presidente di Confindustria. «Che pensi che quella cosa lì piano piano non ci devono mangiare un pochettino i giudici, i giornalisti, e compagnia cantando. Montante è finito lì. Piano piano va nisciennu e u vannutirannu fora [inc]. Quindi, chissà quando [inc], ma sembrerebbe che uscirà, continuerà, ci sarà la seconda…», è l’analisi non lucidissima di Manganaro.

Eppure in questa storia c’è molto di più. C’è un infido virus che prende la forma dell’acqua. La conclamazione del morbo dell’ultimo ventennio, con una catena di contagi moltiplicata in Sicilia dall’abuso di credulità popolare. E Candela, rampantissima superstar di un’era in cui l’unità di misura del potere è quanto ce l’hai grossa (la scorta), è l’ennesimo paladino smascherato. «È fervido auspicio che il suo metodo di gestione ispirato ai valori di massima legalità, diventi il modello condiviso in ogni settore dell’amministrazione regionale», scriveva Rosario Crocetta in un pubblico encomio tributato nel 2014 al “supereroe dei pannoloni”. Il coraggioso manager che assieme a Damiani smascherò la truffa nell’appalto delle forniture dell’Asp di Palermo.

Ma che importa se poi al processo l’accusa barcolla, ormai la nomea è fatta. «Conosco, ci dissi, solo Procuratori della Repubblica e carabinieri, poliziotti, Questori e quant’altro ci dissi, Viminale ci dissi e a Roma un po’ di amici ce li ho», si vanta il super manager intercettato assieme alla cricca. Un déjà vu, la copia di mille riassunti. Sembra di sentir parlare Montante nella sua «stanza, diciamo, della legalità» o qualunque altro apostolino antimafioso che ostenta photo opportunity (ma talvolta anche frequentazioni) con prefetti, magistrati e varia umanità di Stato. «Mi dicono che sono sbirro, è un onore per me», filosofeggiava Candela dimostrando di aver studiato l’abecedario del finto paladino, laddove al capitolo primo s’impara a mimetizzarsi fra i buoni per non far capire che sei cattivo. Certo, è facile sermoneggiare dopo gli arresti. Bisogna studiare, prevenire, intervenire. L’assessore Razza, dicendosi «sgomento», descrive quella di Candela come «una professionalità che si è formata sul terreno della legalità, che ha avuto la scorta e che persino la Corte dei conti aveva indicato di “specchiata moralità pubblica”». E, nel goffo istinto di giustificarsi, centra il punto. Se persino il Quirinale (che, visto l’esito dei più recenti Awards, dovrebbe cambiare i suoi pusher siciliani) ha insignito Candela di un’onorificenza, perché Musumeci doveva sentire puzza di bruciato? Miccichè, come al solito, la tocca piano: «Avvertii il presidente su chi fosse Candela, faceva parte del giro di Montante-Lumia e Crocetta: lo sapevano tutti. Non mi diede ascolto».

Perché Musumeci riesuma Candela? Perché, nella lunga notte dell’ultima infornata dei manager sanitari, si batte così tanto per nominarlo al vertice della sua Catania, arrendendosi soltanto dopo un furibondo litigio con Marco Falcone e Raffaele Stancanelli che riescono a imporre Maurizio Lanza, fino a ieri mattina sgradito al presidente con il Candela sempre acceso in testa? Soltanto perché, per dirla alla Razza, «ha avuto la scorta»? Mettendo da parte il vecchio rapporto di amicizia personale che lega l’assessore alla Salute a Ivan Lo Bello (che in questa storia non c’entra), gli esegeti di Palazzo d’Orléans descrivono una «sincera stima» del presidente nei confronti di Mister Pannoloni, conosciuto e apprezzato, da presidente dell’Antimafia, in un’audizione. E dire che Musumeci aveva sfrattato, con preavviso in campagna elettorale, Patrizia Monterosso, vestale dei riti legalitari della porta accanto, remando controcorrente – i fulmini antimafiosi lo colgano! – nel non confermare Giuseppe Antoci al Parco dei Nebrodi. La giusta punizione per chi non sa riconoscere il sistema è diventarne vittima. Mediaticamente, perché quando sulle strisce dei tg del mattino scorre la notizia “Sicilia: arrestato il responsabile dell’emergenza Covid”, la suggestione è forte e anche il neo-alleato Matteo Salvini non resiste alla tentazione di bimbominkioneggiare sui social: «Chi ha rubato sfruttando il Coronavirus deve pagare anche il doppio». Col blitz di ieri il virus c’entra come la Lega con l’Identità siciliana. Ma Musumeci diventa persino vittima tout court. Nelle intercettazioni Antonio Taibbi, un altro imprenditore arrestato, rivela a Candela di aver pronti «dei e propri dossier ricattatori o di essere pronto a confezionare con tanto di “foto satellitari” delle “porcate” fatte da ognuno per mettere alle strette lo stesso Musumeci ed altri al fine di fare ottenere al Candela i prestigiosi incarichi cui, a loro avviso, doveva essere destinato». Razza minimizza: «Mai ricevuto un dossier, né io né il presidente. Abbiamo riso quando abbiamo letto la notizia».

Ci sarebbe da piangere, invece. Perché è la nemesi finale: un (meno che presunto) dossieraggio sul «fascista galantuomo», come se fosse un Crocetta Qualunque fra favoleggiati sbiancamenti anali e video hard mai trovati. Musumeci fa bene a «passare tutte le gare ai raggi X». Ma ora dovrebbe chiudere i confini del suo governo – così come ha fatto sullo Stretto con chi voleva rientrare dal Nord – ai sospetti untori del malaffare. E ai positivi asintomatici della finta antimafia. Urgono tamponi a raffica. Anche questa è «una guerra con le fionde».

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