Il soprannome più gentile era riferito alla statura: «Totò ‘u curtu». Poi è venuto Tommaso Buscetta e di Totò Riina ha dato la descrizione di un uomo feroce, il ritratto di una belva. La versione giornalistica ha colto invece il suo ruolo di personaggio potente e prepotente: il capo dei capi, che ha ispirato anche una serie televisiva. Riina interpretava in effetti sia la parte della ferocia che quella del dominio e le componeva per dare una strategia alla sua carriera criminale. Per raggiungere il vertice mafioso, lui che era stato a lungo un gregario, si era fatto largo scatenando conflitti, ordinando esecuzioni, sfidando lo Stato, eliminando uomini e simboli del potere democratico.
Per più di vent’anni il suo mito è stato quello di un boss misterioso e inafferrabile che ha diviso l’infanzia e il destino criminale con un altro boss leggendario come Bernardo Provenzano. Stessa piazza d’origine, Corleone, stessa cosca. Cresciuti all’ombra di Luciano Liggio, la loro ascesa nell’empireo mafioso era cominciata negli anni Sessanta. Si era consolidata dopo la cattura di Liggio nel 1974 ed era esplosa nel 1978 quando Riina, con un colpo di mano, aveva deposto Gaetano Badalamenti come capo della «commissione» di Cosa nostra. Erano i primi atti di un rivolgimento che di lì a poco avrebbe imposto la «dittatura» corleonese prima con manovre sotto traccia poi con la sistematica eliminazione degli uomini della vecchia guardia.
L’assalto al comando di Cosa nostra è stato accompagnato da una grande «mattanza»: tra il 1981 e il 1983 oltre mille morti di cui 300 lupare bianche. Tutti gli avversari sono stati fatti fuori: da Stefano Bontade a Totuccio Inzerillo. Si sono salvati solo Totuccio Contorno, che era riuscito a sparare e a mettere in fuga i suoi sicari, Gaetano Badalamenti, che aveva lasciato la Sicilia per dedicarsi al traffico della droga prima di essere arrestato in Spagna, e Buscetta che i Corleonesi cercavano di stanare uccidendogli il fratello, due figli, il genero, il nipote.
Era la stessa logica di vendetta che avrebbe colpito anche il pentito Francesco Marino Mannoia al quale hanno ucciso madre, sorella e zia. Straziante la fine del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dagli amici di Riina perché figlio del pentito Santino.
Quella, ha spiegato Gaspare Mutolo, non è stata in realtà una guerra di mafia, perché non c’era uno scontro tra due gruppi o due famiglie. «A Palermo – ha spiegato – c’è stata solo questa strategia del terrore di Riina. Eravamo arrivati al punto che avevamo paura di parlare anche fra amici perché ci si guardava e si pensava: quello non c’è ma sente tutto».
Di pari passo con la scalata al potere mafioso, Riina aveva lanciato la sua sfida allo Stato e agli uomini delle istituzioni che rappresentavano una minaccia per Cosa nostra. Un’intera classe dirigente – da Michele Reina a Piersanti Mattarella a Pio La Torre – è stata abbattuta. Sono caduti magistrati (Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici), giornalisti (Mario Francese), investigatori (Boris Giuliano, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana), medici incorruttibili (Paolo Giaccone), superprefetti (Carlo Alberto Dalla Chiesa).
Ormai accecato dal delirio di onnipotenza, Riina ricattava il potere politico per incassare l’impunità. Per questo aveva lanciato un segnale ordinando l’eliminazione del procuratore generale Antonino Scopelliti: avrebbe dovuto sostenere in Cassazione l’accusa per il maxiprocesso. Il boss dei boss cercava in questo modo una strada per pilotare la sentenza. E quando le condanne furono confermate in blocco, decretò l’uccisione di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti, dal quale si aspettava un intervento sui giudici. Poi organizzò il grande «botto» con le stragi di Capaci (Giovanni Falcone) e via d’Amelio (Paolo Borsellino). Totò ‘u curtu alzava il livello dello scontro per spaventare lo Stato e per aprire la strada a una «trattativa». Se abbia trovato interlocutori disposti a concedere benefici per fermare le stragi è da dimostrare. Il fatto certo è che nel momento più drammatico della sfida ogni protezione, cercata oppure incassata, è finita.
La strategia di Riina, costata lacrime e sangue, ha consumato il suo fallimento con l’immagine del padrino in posa dimessa in caserma sotto la foto del generale Dalla Chiesa. Dopo di lui nulla è stato più come prima. La mafia ha smesso di sparare per dedicarsi, senza più un’organizzazione unitaria, agli affari, agli appalti, alla droga, ai nuovi scenari dell’economia globale, agli scambi con la politica. Ma senza quella ferocia criminale che la morte di Riina ha ormai consegnato alla storia.