Veronica: “Non portai Loris a scuola”
Veronica: “Non portai Loris a scuola” La madre del piccolo ha una nuova verità
Processo verso una svolta? Ma la Procura frena
AGRIGENTO – Buio in sala. Adesso vi raccontiamo due film. Nel primo la scena madre è all’interno della stanza dei colloqui, nel carcere di Agrigento. Sabato scorso. Una madre, in cella da quasi un anno perché accusata di aver ucciso suo figlio, parla con il suo avvocato. A pochi giorni dall’udienza preliminare. Il primo bivio, decisivo, nella tormentata strada di un processo che potrebbe avere soltanto due destinazioni: innocentissima, come ha sempre giurato l’indagata e quindi il suo legale; oppure colpevolissima, come sostengono i pm di Ragusa che – pur in sentenze in cui c’era “soltanto” da scegliere se liberarla o lasciarla in carcere – hanno incassato con successo «i gravissimi indizi di colpevolezza» a carico della donna. Il tono della discussione fra la reclusa e il difensore si alza. Toccando i picchi sonori del litigio.
«Ma tu sei pazza», si sente a un certo punto. Accusata e avvocato, finora “due cuori e un processo”, sembrano d’un tratto distanti anni luce. Fino al punto che lei, in uno sfogo raccolto dalle compagne di prigione e ascoltato con discrezione dalla polizia penitenziaria, minaccia di revocargli il mandato: «Non lo voglio più, quello lì».
Anche nel secondo film c’è la medesima inquadratura. Su quel tavolino scarno e (in apparenza) riservato, nel carcere di contrada Petrusa. E sempre gli stessi due protagonisti: l’accusata e l’avvocato. Ma, in quest’altra sceneggiatura, i toni del confronto sono ben diversi. «Melliflui», si spinge a definirli qualcuno. Lei tiene la testa bassa, come se si vergognasse. Anzi: come se temesse che ciò che sta per dire al suo legale (che sull’innocenza della donna è andato alla morte nelle aule di tribunale e nei salotti televisivi), potesse offenderlo. No, non è un discorso che affrontano per la prima volta. «Ma sei sicura che mi hai detto tutto?»: è una domanda che lei s’è sentita fare in decine di occasioni, dal suo avvocato. Per coscienza umana e per scrupolo professionale.

Vi abbiamo raccontato due film diversi, seppur con la medesima ambientazione. Ma il finale di entrambi è sempre uno e uno solo. E non è più un film. Veronica Panarello – la donna ventisettenne accusata di aver ucciso e gettato in un canalone suo figlio Loris, di 8 anni, lo scorso 29 novembre a Santa Croce Camerina – è «confusa». Tormentata, da diverse settimane, mentre calpesta nervosa i minuscoli spazi del carcere.
Tanti dubbi, zero certezze. Eppure c’è un cambio, progressivo ma radicale, di linea. Una nuova disponibilità a riscrivere il copione di quella mattina. Fino al punto di confessare? Forse. Il tutto mentre si avvicina a grandi passi l’udienza preliminare: il 19 novembre (ma potrebbe slittare di un giorno) la donna comparirà davanti al gup di Ragusa, Andrea Reale, che dovrà pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio per omicidio aggravato e occultamento di cadavere depositata lo scorso 3 novembre dalla Procura di Ragusa.
Luce in sala. Adesso vi raccontiamo i fatti. Rivelati da fonti qualificate e confermati da interlocutori altrettanto attendibili. Venerdì 6 novembre Veronica chiede a un’agente penitenziaria di poter fare «una telefonata urgente». Le viene concessa. Chiama il marito, Davide Stival, con il quale i contatti sono interrotti da mesi. «Voglio vederti», lo implora. La risposta è prevedibile: «Io no. Non ne posso più di te. Mi prendi in giro dal primo giorno». Il tono della donna si fa serio: «Vieni, ti devo dire delle cose importanti». Lui non cede: «Mi hai sempre detto che quella mattina hai accompagnato il bambino a scuola. Non voglio più sentire altro».
Ma lei lo gela: «Queste cose qui, se tu mi stai accanto, potrebbero anche cambiare. Pensaci, ti aspetto». Clic. La chiamata finisce. E comincia il tormento. Un altro tormento, forse più autentico: quello di un marito-padre con la vita crollata addosso. L’uomo, più volte deluso in passato da “esche” affettive lanciategli dal carcere, decide comunque di andare. Il colloquio straordinario viene autorizzato e, tra l’altro, si svolge in totale privacy, visto che non sono previste altre visite nel corso della giornata.

Nel carcere di Agrigento si arriva subito al dunque. Con un clamoroso colpo di scena. «Quella mattina il bambino io non l’ho accompagnato a scuola», confessa, con voce tremante, Veronica a Davide. E ammette, così come ricostruito dai pm di Ragusa, che Loris «è salito a casa da solo, usando il portachiavi con l’orsacchiotto ». Quindi: non il mazzo che la donna teneva sempre con lei, né quello «di riserva » (che la madre teneva nel posacenere della sua Wolkswagen “Polo”) nel quale però c’era soltanto la chiave del portone esterno e non quella dell’appartamento. «Quello con l’orsacchiotto ». Che la donna ha sempre detto essere rimasto in un cassetto, nel loro appartamento.
Davide la fa parlare. Non la incalza. Si limita a chiederle del perché allora lei, quella mattina, sia tornata a casa. «Dovevo prendere un passeggino da regalare a un’amica », è la spiegazione – assolutamente inedita – dell’insolito comportamento. Arriva il momento del dunque: e allora cosa hai fatto poi a casa? «Non ricordo, ho un buco».
E la domanda consueta: l’hai ammazzato tu, Loris? «No, non sono stata io. Non avevo nessun motivo per farlo». Ci prova, Davide, a strapparle qualche altro brandello di questa (nuova, mezza) verità. Ma Veronica, a un certo punto, si chiude a riccio: «Mi ricordo solo quello che ti ho detto, non ti basta? Ora stammi vicino».
Il colloquio si conclude. Con tanti puntini di sospensione. Ma con un altro scenario. Del tutto diverso, quasi rivoluzionario rispetto a tutto ciò che è successo dall’alba del 9 dicembre, al momento del fermo di Veronica dopo un lunghissimo interrogatorio negli uffici della procura di Ragusa.
Il giorno dopo, sabato 7 novembre, Veronica Panarello riceve altre due visite in carcere. Nessun fuoriprogramma: entrambe previste da tempo. Parla, in separata sede, col padre Franco, uno dei pochissimi familiari che le è rimasto accanto, e con il suo avvocato Francesco Villardita. Racconta loro del colloquio col marito. Stupendoli. E si confronta – con quelle cinquanta (e passa) sfumature di grigio dei due “film” di cui sopra – sulla clamorosa svolta avvenuta 24 ore prima. Sono a conoscenza di questi fatti, come è ovvio che sia, il procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, e il sostituto Marco Rota, che indagano sin dall’inizio sulla morte di Loris. E anche i vertici di polizia e carabinieri che si sono occupati della parte operativa dell’inchiesta.

Ma la nostra ricostruzione viene ufficialmente smentita da più parti. Dalla Procura di Ragusa, innanzitutto, che non aggiunge una sola sillaba in più. Da ambienti investigativi trapela soltanto che «è un momento delicato». Agli atti, però, non risulta alcun passaggio formale: nessuna richiesta da parte dell’indagata di essere sentita, nessun altro “movimento” nella salacolloqui di contrada Petrusa. La trattativa Stato-Veronica, se mai fosse cominciata, è sottotraccia. Anche se ieri mattina non è passata inosservata, la presenza, al tribunale di Ragusa, di un’avvocatessa dello studio Villardita. La quale avrebbe incontrato il pm Rota e il gup Reale. «Questioni tecniche sulla data dell’udienza preliminare», si limitano a smozzicare dal Palazzo. Ed è probabile che sia davvero così. E anche i due avvocati interessati al processo smentiscono.


Ma se davvero Veronica fosse disposta a raccontare un’altra storia? «Qualora la signora Panarello avesse intenzione di modificare l’atteggiamento processuale, e quindi fornire chiarimenti su ciò che accadde il 29 novembre, non potrebbe che essere accolto con sollievo da un padre e marito che cerca la verità e vuole capire perché la sua famiglia è stata distrutta in quel maledetto giorno». E, in un crescendo di «se» e di «qualora», conclude: «Auspico che l’eventuale collaborazione, della quale io non sono a conoscenza, sia frutto di una seria volontà e non di mero calcolo processuale».
Ma il colloquio Veronica-Davide c’è stato, venerdì. E il contenuto è quello: non una “resa” definitiva, ma una nuova versione. Non più integralista, non più autoassolutoria senza se e senza ma. «Sono confusa», è il mantra della carcerata più famosa d’Italia. «Non ricordo bene, ho tante cose che mi girano in testa». Il «non lo so» è diventato, col passare del tempo, un «mi stanno venendo dei dubbi». Gli stessi che su questo giornale vi avevamo svelato, traendoli dal faldone della cnr (comunicazione notizia di reato) consegnata dalla polizia ai pm a conclusione delle indagini. In un colloquio del 6 gennaio, ascoltato dalle microspie, Veronica a un certo punto dice al marito: «Può essere che hai ragione tu, può essere che io mi ricordi di averlo lasciato a scuola ma che invece lui sia rientrato a casa. Ma quando sono tornato non c’era più».
E poi, pressata da Davide, esclama: «Tu ora mi hai fatto venire un altro dubbio! E se mi ricordassi la scena del giorno prima?». Quelle erano “carte” già in mano ai pm. L’incontro fra marito e moglie di venerdì scorso (ma soprattutto tutto ciò che sta dietro e che potrà succedere nei prossimi giorni) rappresenta una novità di non poco conto.

Veronica verso la confessione? È presto per dirlo. Ma prima bisognerebbe rispondere ad altre domande. Quale sarà la sua nuova versione definitiva?
Sarebbe davvero disposta ad accollarsi l’omicidio senza tirare in ballo nessun altro? E soprattutto: quanto c’è di sincero recupero della memoria e quanto, invece, di paura per la sorte processuale?
In caso di condanna con rito ordinario la donna rischia l’ergastolo; con l’abbreviato, c’è lo sconto di pena di un terzo e rischia trent’anni (ma non è detto che l’ergastolo sia escluso). I quali, fra collaborazione e attenuanti varie, potrebbero scendere a 15-18. E poi ci sono le altre variabili di questo nuovo scenario: le perizie psichiatriche; le ipotesi che vanno dalla semi-infermità in su, fino al disturbo di personalità quale causa di non imputabilità. Ma non c’è più tanto tempo. Perché l’udienza preliminare è vicina.
Dentro o fuori, perché poi sarà bianco o nero. Fanta-giudiziaria? Forse. Ma la fantasia, talvolta, è persino riduttiva rispetto alla realtà. «Il senso di colpa, è come un sacco pieno di mattoni. Non devi fare altro che scaricarlo». E questo non lo diceva Pirandello. Ma John Milton, in “L’Avvocato del Diavolo”. Davvero un gran bel film.
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